A caval di Troia non si guarda in bocca

Posted in LaLittératureDuMarronoir with tags , , , , on 28/04/2011 by gfcassatella

A caval di Troia non si guarda in bocca

– Lo vedi quello?

– Quello con la barba bianca e il cappello?

– Sì, proprio lui.

– M’be’?

– Non dovrebbe stare al sole.

– Perché, è albino?

– No no, al massimo è “alvino”… Ha talmente tanto alcool in corpo che se resta più di quindici minuti esposto ai raggi del sole rischia l’autocombustione.

– Beve tanto?

– Sa fare solo quello da quando è nato. Forse, anche da prima. Per poco non ammazzava la mamma durante la gravidanza bevendosi il liquido amniotico.

– Brutta storia – esclamai – ma è lui il nostro uomo?

– No, ma può esserci utile.

Conoscevo Gilberto dalle elementari, già dall’epoca sapeva tutto su tutti. Se ti spariva una penna, una gomma o una macchinina, a scuola, lui sapeva come recuperarla. Aveva un vero e proprio talento. Questo dono ai tempi delle medie gli era valso il soprannome di “Riporto”. Grazie a questa sua particolarità era riuscito a crearsi un proprio ruolo nella società: faceva il rigattiere.

Scendemmo entrambi dal treruote di Gilberto e raggiungemmo l’uomo con il cappello. Non ne avevo la certezza, ma inconsciamente sapevo che quello era il punto più pulito della città. Gli effluvi di alcool che l’uomo emanava non potevano non sterilizzare tutto ciò che lo circondava.

– Ciao Santo.

– Ciao Gilberto – disse l’uomo sorridendo. La sua barba bianca era sporca nella parte più vicina alle labbra. Grappoli di peli erano attaccati tra loro da una sostanza violacea, probabilmente vino rosso.

– Lui è Mario – disse Gilberto indicandomi.

Mi squadrò senza rispondermi e tornò a rivolgersi a Gilberto: – Cosa volete da me?

– Al mio amico, ‘sta notte, hanno rubato la macchina.  Ne sai qualcosa?

– Non so nulla.

– Sicuro? – Gilberto fece sventolare una banconota da cinquanta euro.

La lingua del vecchio saettò sulle labbra e si fermò su uno dei grumi di pelo, quasi volesse succhiarne via il vino.

– Prova a chiedere a Dumbo. Lui ne sa più di me di queste cose.

Gilberto fece sparire la banconota da cinquanta nella tasca e ne estrasse una da cinque  che porse al vecchio.

– Non consumartela tutta, pensa al  futuro…

– Ma vaffanculo, Ripò! – rispose Santo, facendo sparire a sua volta il pezzo da cinque.

– Ci si becca, Francè – disse Gilberto allentandosi in direzione del treruote.

Io balbettai a malapena: – Buongiorno, signor Santo – e mi beccai anche io un vaffanculo.

Appena entrato nel treruote chiesi a Gilberto: – Ma perché lo hai chiamato Francesco?

– Perché è il suo nome.

– Non si chiama Santo?

– No, Santo è il soprannome per via dello spirito… Spirito Santo, no?

– Se lo dici tu…

– Dai dai, mettiamo un po’ di musica. Nello sportello ci sono dei nastri, cerca i Leaf Hound.

Il treruote di Gilberto era dotato di una vecchia autoradio nella quale ci potevi ascoltare le musicassette. Lui lo chiamava ancora “mangianastri”. Trovai la cassetta dei Leaf Hound e le prime note di “Freelance Fiend” fecero capolino nell’abitacolo.

– Chi è ‘sto Dumbo ? – chiesi.

– Un tossico, oltre che spacciatore. Lo chiamano così perché ha la mania di indossare pantaloni a zampa di elefante. Mi giocherei le palle che indossa anche  boxer a zampa…

Non mi fu difficile capire che eravamo giunti dal nostro uomo. Quei pantaloni a zampa di elefante erano un’offesa alla tradizione sartoriale italiana. Dumbo non era solo, con lui c’erano due ragazzi. Capelli a spazzola, occhialoni neri a specchio e bomber bianco. Parcheggiammo nelle vicinanze di una Smart blu e grigia; dalla microvettura arrivava il suono di musica dance. Gilberto uscì dal treruote, si recò verso Dumbo e gli prese il polso. La bustina bianca contenuta nella mano dello spacciatore cadde per terra. I due gemelli glamour accennarono una fuga, ma si beccarono rispettivamente un calcio nella pancia e uno schiaffo a mano aperta in pieno volto.

– Queste sono per la Smart, e sparite se non volete che vi pesti pure per la droga.

Mi avvicinai a Gilberto e dissi – E non dimenticare la musica che ascoltano…

– Mario, mi stai istigando all’omicidio, lo sai?

– Nessun giudice ti darebbe contro. Ci sono le aggravanti droga e Smart a tuo favore.

– Voi due la smettete? Fa male! – era Dumbo che frignava – Lasciami il polso.

– Parolina magica? – dissi.

– Per favore – implorò il tossico.

– Credo che possa bastare, Gilbè. Non vorrei che gli precludessi ogni attività sessuale spaccandogli il polso.

Sentimmo un rumore di gomme sull’asfalto, non ci girammo neanche a guardare, sapevamo che era la Smart che andava via.

– Ok, ok. Lo lascio.

Appena il polso fu libero lo spacciatore si piegò a raccogliere la bustina, ma non ci riuscì, poiché il piede di Riporto andò a scontrasi sul suo viso. Io feci il resto calciando la polvere bianca con il suo involucro in un tombino.

– Ma porca puttana! – disse Dumbo, o almeno immagino che avesse detto questo,  visto che alle mie orecchie arrivò un “mapoccapttrana” impastato. La sua bocca sanguinava vistosamente e mi sorpresi nel constatare che nemmeno un dente si era rotto.  Evidentemente, la coca contiene calcio. Mi imposi di documentarmi al riguardo sulle pagine della Gazzetta dello Sport, l’unica vera bibbia del calcio.

– Al mio amico, ‘sta notte, hanno rubato la macchina.  Ne sai qualcosa? – Gilberto ripete l’identica domanda che aveva già posto a Santo.

– E io che c’entro?

– C’entri, c’entri… – Gilberto fece un passo per far pesare su Dumbo la sua mole.

– Riporto, ti giuro che non ne so niente.

Avevo serie difficoltà a capire quello che Dumbo diceva, la sua emorragia non accennava a diminuire. Per ascoltare meglio feci un passo avanti. Dumbo evidentemente interpretò malamente il mio gesto e lo scambiò per una minaccia. Iniziò ad urlare: – Che volete da me non so nulla. Vi denuncio alla polizia se mi toccate ancora. Conosco i miei diritti di cittadino.

Nell’udire quelle parole Gilberto scoppiò a ridere, riprese il polso dello spacciatore e iniziò  a torcerglielo nuovamente, ma questa volta in modo molto più violento.

– Ti ci porto io alla polizia – gridava il mio ex compagno di classe – brutto figlio di puttana! Sali sul mio treruote e andiamo a raccontare alla polizia che cosa stavi vendendo ai due coglioni della Smart.

– Non hai prove – sussurrò l’altro mentre le sue lacrime, scendendo dagli occhi, avevano formato un tutt’uno con il sangue che sgorgava dalla bocca.

– Scommettiamo che le trovo? Mario, alza la “zampa” di questo pezzo di merda!

Mi chinai e alzando la gamba del pantalone  vidi subito che lo spacciatore indossava una sorta di giarrettiera che a me ricordò le “cartucciere” che io e i miei compagni di classe ci costruimmo in occasione degli esami di maturità per potervi mettere dentro i temi già svolti. La fascia conteneva in ogni scomparto una busta di polverina bianca.

– Penso che questo possa bastare come prova, no? – disse Gilberto.

– Ok, ok. Vi aiuto – fu quanto riuscì a dire Dumbo prima di sputare un grumo di sangue sul marciapiede, stando ben attento a non sporcare le scarpe di Gilberto e complicarsi maggiormente la vita.

– Ascoltiamo… – disse Riporto.

Dumbo si passò il polso libero sulla bocca e si ripulì del sangue che gli sporcava le labbra. La manica della sua giacca divenne di uno strano colore rosso amarena. Per poco non vomitai.

– Sono stati gli zingari. Sono in città da circa un paio d’anni, si sono sistemati nelle vicinanze dell’imbocco della tangenziale. Sinora non hanno mai rubato macchine qui da noi, preferiscono andare fuori a farlo, per non avere problemi con noi gente perbene.

Vidi Gilberto scagliare un manrovescio sul volto martoriato di quel ragazzo che non poteva avere più di venticinque anni, ma che le vicissitudini della vita avevano fatto invecchiare precocemente.

– Noi siamo gente perbene – nel dire questo il mio compagno cercò un mio sguardo d’intesa. Io feci spallucce. In realtà, ero disgustato dalla sua violenza, mi sembrava quasi che ci provasse gusto. Non vedevo l’ora di andar via da quel posto. Il mio amico interpretò quel mio gesto come una conferma alla sua opinione e quindi tornò a dedicarsi allo spaccino.

– Continua – l’esortò.

– E’ cambiato qualcosa al campo rom. C’è uno nuovo, si dice che sia italiano e che comanda un po’ tutti. Forse, è stato lui a ordinare di rubare le auto anche qui da noi.

– Dove lo trovo?

– Al campo rom, ma non ti ci fanno entrare là.

– Vedremo – disse Gilberto.

– Ti do un consiglio: al semaforo che trovi alla fine di questa strada c’è uno storpio, si chiama Adrian, chiedi a lui se sa qualcosa. Sono sicuro che saprai come convincerlo a parlare – Dumbo fece un sorriso e vidi i suoi denti gialli sporchi di sangue.

– Perché sei così gentile con noi? – chiesi dato che mi sembrava strano che si fosse offerto di aiutarci dopo quello che gli avevamo fatto.

– Perché gli zingari sono dei ladri schifosi. Sono uno schifo e devono andare via dall’Italia! Stanno riducendo questo paese a una fogna.

Vidi Gilberto annuire e rabbrividii: uno era un violento, l’altro uno spacciatore, e si lamentavano degli zingari. Anzi, il loro odio comune li aveva riavvicinati, qualcosa del tipo “il nemico del mio nemico è un mio amico”.

Fu il rigattiere a interrompere i miei pensieri quando disse – andiamo da questo Adrian – e poi rivolto a Dumbo – tu non farti più vedere in giro o ti sistemo io.

Dumbo si inchinò e portò le mani al petto in un gesto che mi fece pensare a una geisha. La più strana geisha del mondo sanguinante e con i pantaloni a zampa.

Risalimmo sul treruote. Avrei preferito rimanere in silenzio per un po’: ero tormentato dall’ immagine di quella bocca sanguinante. Ma il mio desiderio fu vano, Gilberto riprese subito la parola.

– Lo dovevo capire da subito che c’erano gli zingari di mezzo. Anche se non immaginavo che avessero iniziato a rubare anche qui da noi. La verità è che questo paese sta andando allo sfascio e sai la colpa di chi è?

– Di chi è? – chiesi.

– Di voi comunisti del cazzo.

– Non sono comunista.

– Sì, che lo sei.

– No, che non lo sono.

– Perché porti i capelli lunghi?

– Perché mi piacciono.

– E la barba?

– Perché mi piace.

– No, la verità è che ti piace essere comunista. E sai perché ti piace? Te lo dico io il perché: ti aiuta a sentirti più buono. La notte vai a dormire sereno a casa e pensi: il mondo fa schifo e la colpa non è mia, ma è degli altri. Fosse per me risolverei il problema della fame del mondo; se fosse per me non ci sarebbero le guerre; se fosse per me accoglierei tutti gli extracomunitari. E ‘sti pensieri ti fanno dormire sereno. Ma la realtà è diversa: tu non fai un cazzo, ti limiti a pensare ai tuoi “se”, ma non dai le soluzioni. E intanto ‘sto paese va alla deriva. Io dico fanculo a tutti, i problemi ci sono e bisogna risolverli. E come si risolvono? Mandando a casa le merde che arrivano qui in Italia e dopo che abbiamo rispedito loro a casa iniziamo a mazzullare i nostri parassiti ben bene. Vedi come si risolvono i problemi?

– Non è questa la soluzione…

– Vedi che sei un comunista del cazzo?

– Non sono comunista…

– Sì che lo sei! Dimmi allora che cosa ne dobbiamo fare degli zingari che ti hanno fregato la macchina!?

Con quella domanda aveva toccato uno dei nervi scoperti della mia coscienza. In realtà, mi importava poco della macchina o meglio di chi avesse effettuato il furto: per me, un ladro è un ladro, al di là di razza o provenienza sociale. Cosa mi metteva in difficoltà in quella domanda erano gli zingari. Perché non li tollero neanche io e questo mi dà fastidio. Mi considero un progressista e un non razzista, ma quando si tocca il tasto rom mi trovo in imbarazzo. Non mi piace che si nascondano dietro i bambini quando chiedono l’elemosina. Non ho mai visto un musulmano chiedere l’elemosina, cercano i lavori più disparati, come lavare un vetro, ma hanno la dignità di non chiedere nulla senza dare niente in cambio. Ritengo che chiunque possa venire qui da noi e avere le stesse nostre possibilità. Capisco anche che si possa essere attratti dall’immagine fasulla che la televisione dà del nostro paese e che quindi, una volta arrivati qui da noi, ci si scontri con la triste realtà quotidiana e che alla lunga, in alcuni casi, si finisca a delinquere. È capitato a noi italiani un po’ ovunque nel mondo e ora capita a chi arriva da noi. Una specie di contrappasso. Ma quando penso agli zingari questi alibi vengono meno. Sarà un retaggio culturale: ricordo ancora i miei che dicevano che se facevo il cattivo gli zingari mi avrebbero portato via. Ero francamente in difficoltà, dovevo trovare una risposta che fosse adeguata a quello che realmente pensavo e che comunque non mi ponesse sullo stesso livello di Gilberto. Fui fortunato perché sentii Gilberto dire: – eccolo.

Alzai lo sguardo e vidi un ragazzetto con una stampella, doveva essere Adrian. Nonostante il verde Gilberto rallentò la velocità del nostro mezzo, voleva che fosse rosso quando saremmo arrivati al semaforo. Così fu.

Lo storpio ci si fece incontro, il mio amico abbassò il finestrino e iniziò ad armeggiare nelle tasche. La strada era isolata, c’eravamo solo noi. A quell’ora erano tutti a pranzo. La mano uscì dalla tasca e il ragazzetto, che non sembrava neanche maggiorenne, si avvicinò per prendere le sua elemosina. Ebbi solo il tempo di vedere lo sguardo stupido del rom, che sentii un gran rumore. Il mio accompagnatore, invece di porgere le monetine, aveva preso la testa dello zingaro e l’aveva sbattuta con violenza sullo sportello. Uscì dal treruote, sollevò il ragazzo, lo portò sul marciapiede e lo mise a sedere con le spalle appoggiate a un albero. Io ero ancora inebetito e non avevo la forza di uscire. Alcune macchine passavano, vedevano quell’omone e lo storpio appoggiato all’albero, rimanevano incuriositi, ma non si ponevano più di tante domande.

Gilberto aveva iniziato a palare con il ragazzino, non sentivo quello che gli diceva, ma potevo vedere che si agitava. Scesi e li raggiunsi. Lessi nello sguardo del ragazzo un miscuglio di paura e furbizia che mi turbò.

– Senti bene, la macchina del mio amico è una Punto blu ed è sparita questa notte.

– Non so niente io. Io malato. Io non rubo macchine.

– Tu ora mi dici dov’è la macchina o io ti rompo quel poco che hai di sano.

Vidi Gilberto caricare un calcio e questa volta intervenni per bloccarlo.

– Non vedi che è un povero invalido? Lascialo stare.

Gilberto mi guardò con aria inferocita, ero convinto che mi avrebbe ammazzato. Rimase per la prima volta in quella giornata senza parole. Quell’attimo ci fu fatale. Il ragazzetto raccolse la sua stampella e ci colpì violentante agli stinchi. Un po’ per il dolore, ma soprattutto per la sorpresa, non reagimmo. Il ragazzo sparì tra gli alberi che c’erano lungo il marciapiede. Io e Gilberto tentammo di raggiungerlo, ma gli stinchi doloranti ci fecero rallentare. Il ragazzo era una saetta, altro che invalido. Lo vedemmo piegarsi e raccogliere un motorino da terra, un , salirci sopra e incominciare a pedalare. Il motorino, nel momento in cui si accese, fece uno scoppio che riportò alla realtà sia me che Gilberto. Io cercai di raggiungerlo, ma il mio amico mi fermò e mi fece segno di andare al treruote.

Saltammo su e iniziammo il nostro inseguimento. Il semaforo era quasi all’imbocco della tangenziale e il ragazzo rom non aveva altra possibilità di fuga se non percorrere quella strada. L’ imboccammo anche noi. Il era di una lentezza sconcertante, ma il nostro veicolo lo era molto di più. Il tallonamento avveniva sulla corsia più lenta della strada. Le macchine ci sfrecciavano accanto,  ma di certo i loro conducenti non potevano neanche minimamente immaginare che il nostro fosse un inseguimento per quanto andavamo lenti sia noi che la nostra preda.

– Gilbè, fammi scendere che a piedi lo raggiungo prima…

– Brutto stronzo, se avessi lasciato fare a me non ci sarebbe sfuggito! Lo dicevo che eri un comunista del cazzo!

– Lo stavi picchiando e lui era solo un handicappato.

– Ma hai visto come correva il tuo handicappato?

– Sì, ma non noi non lo sapevamo che era sano!

– Parla per te, comunista! Sai cosa ci manca?

– No – risposi.

– La musica giusta per un inseguimento!

– Che dici?

– Prendi il nastro dei Babe Ruth!

– Non dirmi cha hai First Base qui?

– Sì, sì.

Lo guardai ammirato – quello è un grande disco!

– Un grandissimo disco!

– Amen, fratello!

Inserii il nastro e fecero capolino le note di Wells Fargo, la più grande canzone “da inseguimento” che sia stata mai scritta. Le note arrivarono alle nostre orecchie e all’unisono iniziammo ad accompagnare il pezzo con i nostri “popo popopo popopopòooo”. Ci sentivamo gli sbirri di un poliziottesco all’italiana: i cattivi erano davanti a noi ma la nostra Giulia li avrebbe morsi alle caviglie finché loro sfiniti non avrebbero ceduto! Il calore ci salì nel cuore e la nostra amicizia si rinsaldò. Non c’è nulla di meglio di un inseguimento o d’una pisciata all’aria aperta per rafforzare una virile amicizia.

Il rallentò e svincolò. Lo seguimmo e ci ritrovammo in campagna, ma i palazzi più alti riuscivamo a scorgerli all’orizzonte. Quando vedemmo girare il motorino in una stradina piena di buche non rimanemmo sorpresi. Il ragazzo si stava dirigendo al campo rom. Dovevamo accelerare, ma il treruote a stento riusciva a mantenere quell’andatura. Il recinto della baraccopoli entrò  nel nostro campo visivo, mentre il ragazzo sul motorino ne uscì. La persona che inseguivamo era riuscita a entrare nell’accampamento nomadi.

Ci fermammo sulla porta dell’accampamento per valutare l’eventualità di continuare a inseguire il ragazzo lì dentro. La risposta fu subito chiara quando vedemmo delle persone armate avvicinarsi a noi. Il nostro inseguimento era finito.

***

Niente mi spaventa più della possibilità di contrarre un tumore alla prostata. Questa preoccupazione è come un ronzio continuo la cui intensità varia a seconda dei momenti. In realtà, dovrei essere maggiormente  angosciato dal colon. In famiglia ci sono stati dei precedenti e io già soffro di qualche problemino. L’intensità del ronzio quel giorno era ai minimi storici. Le mie ansie erano rivolte tutte alla macchina. Mi sentivo in colpa, l’auto non era la mia: il mio ex coinquilino me l’aveva affidata quando si era trasferito in Messico e lo aveva fatto solo perché non aveva alternative. Quando rincasai non avevo voglia di mangiare, ma mi preparai un uovo al tegamino. Accesi la tv e azzerai l’audio. Quando sentii squillare il telefono un gelo mi invase, quasi m’avessero infilato nel culo un vibratore dimenticato sul balcone del proprio igloo da una donna esquimese. Solo una persona poteva chiamarmi a quell’ora e quella persona non poteva essere che un individuo che si trovava dall’altra parte dell’emisfero. Considerando le ultime vicissitudini internazionali, mi toccò escludere dall’elenco delle possibilità il presedente Bush e  puntai decisamente sul mio ex coinquilino Gino.

Alzai la cornetta.

-Pronto.

-Sono Gino.

Tombola, pensai. Schivare con lui l’argomento macchina sarebbe stato come pretendere di schivare le merde su un marciapiede camminando bendato. Impossibile.

-Hei, ciao! – cercai di essere più disinvolto possibile.

-La macchina è ok?

-Sì, grazie sto bene. Sono felice di sentirti.

-Anche io. Dimmi della macchina.

-Da dove chiami?

-Sono a Merida.

-Bella città Merida. Ricordo ancora l’albergo in cui sono stato quando la visitai. Era un posto stranissimo. Non ne ricordo il nome…

-E della macchina che mi dici?

-Ricordi il libro che volevo scrivere?

-Perché, volevi scrivere un libro?

-Sì, te ne ho parlato.

-Non ricordo.

-Mi offende ‘sta cosa. Sappilo.

-No, no… Ora ricordo.

Bugiardo pensai tra me, non avevo mai tentato di scrivere un libro.

-Ho avuto l’idea. Questa volta faccio il botto.

-E di che si tratta?

-Be’, hai presente quei Babbo Natale che mettono appesi fuori alle case?

-Quelli che salgono le scale?

-Sì, quelli.

-Spara, che la telefonata costa.

-Allora la storia è questa: c’è ‘sta scimmia che il padrone  veste da Babbo Natale e la usa per rubare nelle case. La cosa geniale è che se uno passa e vede la scimmia salire sulla parete crede che sia uno di quei Babbo Natale. Una sorta de I delitti della Rue Morgue in versione strenna…

-E come finisce la storia?

-Finisce che arriva l’Epifania e il padrone della scimmia deve aspettare un altro anno per rifare i colpi.

-E’ una boiata.

-Lavorandoci un po’…

-Diventa una boiata più lavorata. La macchina, tutto ok?

-Sai quella paura che ho del tumore alla prostata?

-Sì.

-Mi son deciso, vado dall’andrologo.

-Bravo.

-Grazie.

-Quando te lo meriti te lo dico e quando non te lo dico è per spronarti a far di più.

-Ammirevole da parte tua. Dicevo, ‘sta cosa dell’andrologo mi ha fatto venire un’idea.

-Sentiamo…

-Se divento ministro della sanità…

-Non volevi diventare Papa?

-Ho cambiato idea, il bianco m’ingrassa.

-Lo sapevi anche prima, per questo cercavi preservativi bianchi.

-Vabbè, uno avrà diritto di cambiare idea.

-Direi di sì.

-Dicevo, se divento ministro della sanità imporrò che gli andrologi siano solo di sesso femminile e affette da morbo di Parkinson. E sai perché?

-Posso immaginarlo…

-No, che non puoi. Perché, così facendo, un uomo invece di andare a prostitute va dall’andrologo. In questo modo io risolvo il problema della prostituzione e incentivo la prevenzione.

-Hai il mio voto. Ora dimmi della macchina.

Non sapevo più che inventarmi per sviare il discorso macchina. Sono un uomo e da uomo mi dovevo comportare , quindi feci l’unica cosa possibile: mentii.

-La macchina? E’ tutto ok. E’ parcheggiata qui sotto. Se vuoi mi affaccio e controllo che ci sia ancora.

-Sì, fallo – Sapevo che me l’avrebbe chiesto. Attesi qualche secondo e ripresi il telefono.

-E’ tutto ok.

-Be’, fammi chiudere.

-Grazie per la telefonata.

-Prego, ci sentiamo la settimana prossima. E salutami tutti.

-Non mancherò.

Chiusi il telefono e tornai al mio uovo fritto che ormai era diventato un tutt’uno con il piatto.

***

Il mio morale era pezzi: in una giornata avevo tradito per due volte la fiducia del mio migliore amico, facendomi rubare la sua macchina e mentendogli al telefono. Quando ero così giù di morale potevo fare solo una cosa: utilizzare il metodo “Hey Jude”.

Il metodo “Hey Jude” consiste nel prendere la prima strofa della canzone dei Beatles e applicarla alla lettera.

Hey Jude, non prendertela:
prendi una canzone triste e rendila migliore.
Ricordati di riporla nel tuo cuore
e poi comincia a migliorarla.

Il trucco sta nel sostituire il nome Jude con il proprio nome, scegliere una canzone triste e riascoltarla più volte. Inizialmentel’umore peggiora, la canzone ti rende ancora più triste, ma a un certo punto “rompi il fiato”, un po’ come avviene in piscina  e inizi a metabolizzare il motivo. Poi si arriva alla fase che  chiamo “lama”:  mastichi e rimastichi la canzone canticchiandola, finché non si forma un “bolo spirituale” che altro non è che la tua tristezza più la parte triste della canzone. L’ultima fase prevede lo sputo del “bolo”. Ti ritrovi così più allegro e con una canzone migliore.

Iniziai a scorrere la mia collezione di cd alla ricerca di una canzone triste. Stavo per puntare su “Child In Tim” dei Deep Purple, quando la mia attenzione fu richiamata da Janis Joplin e così optai per Cry Babe. Misi il cd in funzione repeat nello stereo, spensi la luce e mi lasciai cadere sul divano. La voce roca della “Perla” entrava nelle mie orecchie peggiorando il mio umore. Iniziai a canticchiare e pian piano le immagini della giornata mi ritornarono alla mente: prima la scoperta del furto, poi l’arrivo alla bottega di Gilberto, poi Santo, Dumbo e Adrian, l’inseguimento e il nostro arrivo al campo nomadi. I miei pensieri tornarono soprattutto al momento in cui gli uomini armati, usciti dal campo nomadi, ci si fecero incontro.  Non erano molto robusti fisicamente e potevano avere un’ età che andava dai sedici a i quarant’anni. Non era facile da stabilire. Adrian era tra di loro e ci indicava. Uno degli uomini ci fece cenno di scendere. Io aprii la portiera, non mi andava di contrariare una persona armata. Mi ritrovai fuori dal treruote e soprattutto solo. Gilberto era ancora nell’abitacolo chinato, sembrava cercasse qualcosa. Temetti immediatamente che cercasse un’arma. Lui è un tipo da pistola “nel cruscotto”. Iniziai a sudare e a maledire il momento in cui avevo deciso di affidarmi a Riporto.

Lo sportello dalla parte del guidatore si aprì e vidi Gilberto uscire. In mano stringeva l’autoradio che con un gesto rapido infilò sotto il braccio.

– Ma vaffanculo, mi hai fatto prendere un accidenti – gli sussurrai tra i denti – temevo che stessi prendendo una pistola, invece prendi una cazzo di autoradio di merda!

– Secondo te, in un posto pieno di zingari, io lascio l’autoradio incustodita?

– Tu sei pazzo, a chi vuoi che possa interessare quel pezzo di antiquariato?

– Guarda che all’epoca la pagai trecentomila lire e stiamo parlando di venti anni fa. Fatti due conti…

– Sono passati venti anni, il mondo è andato avanti. Esistono i cd,gli mp3 e tu usi ancora i nastri, ma ti rendi conto?

– E cosa c’è che non va nei nastri?

– Il fruscio e poi si inceppano. Se devi andare da un brano all’altro è un casino.

– Tu sei un figlio del consumismo sfrenato! Tipico di voi comunisti, parlate di povertà nel mondo e  poi buttate gli elettrodomestici ancora funzionanti facendo il gioco delle multinazionali!

– Non sono un comunista!

– Sì, che lo sei!

Fu a quel punto che sentimmo lo sparo. Il tipo che ci aveva fatto segno di uscire dal treruote impugnava la pistola, ancora fumante, tenendola con la canna verso l’alto.

– Che volete? – ci chiese.

– Al mio amico hanno rubato la macchina, una Punto blu, ‘sta notte, e un “uccellino” ci ha detto che siete stati voi.

– Non ne sappiamo niente. Noi siamo gente onesta che lavora, non siamo ladri – il suo italiano era stentato ma comprensibile.

– Datateci la macchina e noi andiamo via.

– Non vi diamo niente e voi ve ne andate.

– Se non ci dite dov’è la macchina torniamo con la polizia e vi piantiamo un casino.

– Non abbiamo niente da nascondere. Andate via! – questa volta accompagnò l’invito con un movimento della pistola.

– Io da qui non mi muovo – disse Gilberto.

Intorno a noi si era formato un capannello, composto da uomini donne e, soprattutto, bambini. Probabilmente fu proprio uno di questi a lanciare il sasso che mi colpì di striscio sulla fronte e andò a incocciare il treruote. Sentivo il sangue colare e portai la mano con un gesto meccanico sulla ferita.

– Andiamo via, Gilbè. Non vorrei che ti colpissero l’autoradio. Chi se li sente poi i Beni Culturali?

Gilberto mi guardò, poi si guardò intorno e abbassò la testa. Si era arreso anche lui.

– Ok, andiamo.

Ci girammo e raggiungemmo il treruote. Salii per primo e attesi il mio compagno, il quale  entrò nel veicolo ma ne uscì immediatamente. Lo sentii urlare il mio indirizzo, ordinando ai rom di farmi trovare la macchina sotto casa, se non volevano problemi con la gente perbene della nostra città.

Quando entrò in macchina lo fulminai con lo sguardo e dissi: – Ma sei pazzo? Gli hai detto dove abito! Domani mi trovo la casa vuota!

– Sanno già dove abiti, ti hanno fregato la macchina, non lo scordare.

– Non ti è venuto in mente che magari non l’hanno fregata loro la macchina e ora hanno le palle che girano e vogliono vendicare l’affronto?

– Sono stati loro.

Il viaggio verso casa mia fu silenzioso. Nessuno dei due aveva voglia di parlare all’altro. Io mi maledivo per aver chiesto il suo aiuto, ben sapendo che Gilberto è una testa calda. Lui probabilmente mi malediva perché ero un ingrato che non apprezzava quello che aveva fatto per me.

Arrivati sotto casa scesi e lo salutai. Fu un commiato freddo. Arrivai al portone e mi sentii chiamare. Mi girai e vidi Riporto armeggiare nel bagagliaio del treruote.

– Questo è per te – stringeva in mano un accendino con una stella rossa in soprarilievo – l’ho trovato svuotando la cantina di un ex camionista. La sua vedova mi ha raccontato che il marito andava spesso in Russia prima della  caduta del muro. Quindi è roba originale. Credo che un comunista come te apprezza ‘sti cimeli.

– Non sono un comunista e non fumo più.

– Il fumo è come la merda di cane: la pesti, pulisci la scarpa facendo tanta fatica, ma prima o poi ne schiacci un’altra.

Presi l’accendino e lo infilai in tasca. – Ti chiamo domattina e ti faccio sapere se si sono fregati anche l’accendino oltre tutto il resto da casa mia.

Mi sorrise e andò via.

I ricordi svanirono e mi ritrovai nel mio salotto. Il metodo “Hey Jude” aveva funzionato. Mi sentivo l’animo più leggero e mi prefissi di andare in questura l’indomani mattina a denunciare il furto, poi avrei raccolto tutto il mio coraggio e avrei raccontato tutto a Gino.

***

I buoni propositi, nel mio caso, sono come le carte da gioco nella costruzione di un castello: più ne metto uno su l’altro, tanto più facilmente crollano su se stessi.

A onor del vero, questa volta di responsabilità ne avevo poche. Semplicemente, non tenni fede ai miei propositi perché quando il giorno dopo aprii il portone trovai la macchina di Gino sotto casa.

Seduti sul cofano c’erano due persone in attesa. Uno era Adrian, l’altro era quello che ci aveva minacciato con la pistola al campo rom. Mi fecero segno di entrare in macchina, sul sedile posteriore. Loro rimasero all’esterno, ma non mi ritrovai solo nell’abitacolo. C’era un uomo che mi aspettava: grasso, bruno di carnagione e di capelli; aveva folti baffi e indossava una giacca militare; alle dita e al collo portava tutta una serie di gioielli in oro, che al suo confronto B.E. Baraccus degli A-Team sembrava Mr Sobrietà.

Mi sorrise e i sui denti erano bianchi. La cosa mi sorprese, considerando l’olezzo che emanava. Lanciai uno sguardo di comprensione all’Arbre Magique che pendeva dallo specchietto.

– Hai visto, hai riavuto la tua macchina!

– Chi è lei? – era chiaramente italiano, non aveva la parlata strascinata dei rom. Doveva essere il tizio che controllava i rom, quello di cui ci aveva parlato Dumbo.

– Un amico che ha preso a cuore la tua causa.

– Quindi, l’avevate rubata voi la macchina.

– Noi? No, no. Noi siamo cittadini perbene a cui piace vivere in pace con le persone della nostra città.

– E chi è stato allora?

– Cosa importa, ormai? La macchina è qui ed è tutto sistemato, no? – mi lanciò un sorriso con quei denti che brillavano quasi quanto l’oro che aveva addosso.

– Quanto volete per la macchina?

– Tu mi offendi! Tu non sai chi sono io! Soldi, soldi, soldi! Sempre a questo pensate! Non voglio un euro per la macchina. Ho fatto un favore a un amico che sono certo che prima o poi mi ricambierà – ancora quei denti.

– Be’, grazie. Anche se non capisco cosa possa fare io per voi.

– Tu puoi fare una cosa anche subito. Che giorno è oggi?

– Domenica.

– Esatto. E cosa fai tu la domenica?

– Vado a catechismo – fu una pessima idea fare quella battuta, poiché scatenò l’ilarità del tipo e fui costretto a rivedere i suoi denti.

– Simpatico, simpatico. Ma a me risulta che la domenica ti rechi al canile per dare da mangiare alle bestie.

Era tutto vero. Il Comune aveva intenzione di chiudere il canile municipale, alcuni anni prima rispetto alla mia assunzione. Ci furono degli scioperi da parte delle persone che vi lavoravano a cui si unirono anche le diverse associazioni animaliste della città. Il Comune fece un passo indietro e decise che il canile sarebbe rimasto aperto, ma impose alcune condizioni per la riduzione dei costi. Apertura del canile dal lunedì al venerdì. Sabato e domenica sarebbe rimasto chiuso, due addetti avrebbero provveduto a sfamare i cani in questi giorni: uno il sabato e uno la domenica. Eliminazione del guardiano e sostituzione con impianto di allarme con avviso telefonico automatico alla vicina caserma della polizia municipale: qualora qualcuno avesse cercato di forzare le vie di accesso i vigili sarebbero intervenuti in meno di cinque minuti. In realtà, l’amministrazione comunale dava per scontato che il canile non interessasse a nessuno e che quindi le probabilità di furto sarebbero state quasi vicine allo zero. Ovviamente, era previsto anche un impianto antincendio. Per le associazioni animaliste queste imposizioni erano assurde e presentarono un ricorso. Erano passati più di quattro anni dall’entrata in funzione di questo sistema di gestione del canile e il tribunale non aveva emesso ancora nessun verdetto. Noi impiegati del canile c’eravamo adeguati  alla situazione e, dato che non ero sposato, al momento dell’assunzione mi ero offerto per il turno domenicale. La cosa aveva i suoi vantaggi retributivi, non lo nego.

– E quindi?

– Noi ti diamo la macchina e tu ci fai entrare nel canile disattivando gli allarmi.

– E che cosa rubereste dal canile, carne in scatola e croccantini? Soldi non ce ne sono.

– Di nuovo ‘sto termine rubare! Ti ripeto, noi siamo gente onesta. La mattina ci alziamo e lavoriamo come voi. E poi cerchiamo con il nostro lavoro, quando è possibile, di portare un po’ di benessere a questa città sottoforma di svago.

– E cosa c’entra il canile?

– Be’, noi organizziamo attività sportive con i cani.

– Volete i cani per farli combattere?

– Anche correre…

– Non se ne parla proprio, io non vi aiuto – tentai di aprire la porta, ma non ci riuscii, il tipo che ci aveva minacciato con la pistola si era seduto sullo sportello.

– Sai cosa ho imparato vivendo con ‘sta gente? – con il dito indicò Adrian – Che ogni favore và ricambiato. Se io ti riporto la tua macchina, tu mi restituisci il favore. Altrimenti…

– Non la voglio, la macchina…

– Mai rifiutare un favore, è peggio che non contraccambiare – detto questo mi colpì con un manrovescio. I suoi anelli mi causarono tutta una serie di escoriazioni, oltre la riapertura della ferita prodotta dal sasso lanciatomi contro il giorno prima.

Il mio interlocutore abbassò il finestrino e gridò ai due fuori: – Si parte.

***

            Ho sempre desiderato possedere un’edicola. Un chiosco, per la precisione. Certo, le motivazioni son cambiate dalla mia infanzia a oggi che ho quasi trentacinque anni alle spalle. Se da piccolo ero affascinato da una strana mistura di desiderio di Topolino e di riviste porno (in realtà, c’è stata anche la fase “desiderio di videocassetta”, non ho vissuto la fase DVD, poiché il supporto è arrivato quando i miei pruriti sessuali andavano scemando), da adulto mi ha sempre affascinato la possibilità di avere libero accesso a ogni tipo di giornale. Dalle riviste musicali a quelle sportive e perché no, anche ai fumetti. L’unica altra attività che ha sempre esercitato un’attrazione simile a quella dell’edicolante è stata quella del gestore di  ferramenta. Sono follemente attratto dai cassettini che si trovano alle spalle dei commessi, nonostante non sia un persona particolarmente curiosa. Ma secondo me in quei tiretti  si celano tesori inestimabili e magari qualche omino di acciaio in divisa da fabbro.

Le strade della vita mi hanno portato a lavorare in un canile municipale. Non mi lamento. Amo il mio il lavoro, anche se gli unici giornali che adopero sono quelli che utilizzo, talvolta, per raccogliere la merda di cane. Di cassettini con omini metallici ce ne sono pochi, però, ho tante casettine con quadrupedi pelosi. Nulla, però, poteva togliermi dalla testa, mentre ascoltavo l’uomo che mi stava accanto, che se avessi gestito un’edicola o una ferramenta non mi sarei ritrovato in quel pasticcio.

Il mio viaggio fu silenzioso, non posso dire la stessa cosa di quello del mio compagno di sedile. Mi raccontò la sua storia: ex meccanico entrato nell’esercito per sfuggire alla fame; dopo un breve periodo nell’officina della caserma, la sua capacità di tessere torbide trame gli aveva aperto le porte dei servizi segreti; durante una missione in Romania aveva fatto il salto della quaglia e si era ritrovato al soldo di Ceaucesco.

-Tu mi chiedi il perché?

-Sì – risposi.

-Perché pagava meglio, no?

Caduto il dittatore si era reinventato “baronetto” e aveva messo su una piccola squadra di picchiatori. Inizialmente aveva colpito la popolazione rumena, ma quando si era reso conto che soldi lì ce n’erano pochi, aveva rivolto le sue attenzioni agli zingari.

-Non era facile chiedere soldi a chi soldi non ne aveva. Così ho pensato di rivolgermi ai rom.

Lo guardavo senza fiatare. Lui non mi guardava e fiatava. Pure troppo.

– Durante il mio periodo di servizio per Ceaucesco avevo il compito di risolvere la “grana zingari”. I Ceaucesco avevano idee chiare al riguardo: assimilazione forzata. Consideravano i rom una vergogna per la nazione. Il mio compito era quello di “azzerare” le differenze etniche. Andavamo nei campi, portavamo via le donne, che poi spedivamo nei paesi in cui c’erano delle miniere, e là le costringevamo a sposare uomini rumeni. I ragazzini andavano in centri di rieducazione. E gli uomini in fabbrica. I più si ribellavano, e questi più, venivano picchiati.

Parlava con una disinvoltura agghiacciante, credo che poco gli importasse se lo ascoltassi o meno.

-Sai una cosa?

-Cosa?

-Gli zingari sono stati perseguitati per secoli. E non mi riferisco solo da noi in Romania.

-Beh, sì, ne ho sentito parlare.

-I più non lo sanno. Circa cinquecento mila zingari sono stati fatti fuori dai nazisti. Ma i nazisti sono cattivi… Ma i paesi più civili non scherzano. Per esempio, sterilizzazione forzata degli uomini in Svezia, Danimarca e Austria. Questa pratica è terminata solo negli anni settanta.

-Non lo sapevo.

-Non commuoverti, sono comunque delle bestie e il più delle volte se lo sono meritato. Quello che voglio dire io è che c’è un razzismo storico. Si parla del genocidio ebraico perché gli ebrei sono come noi, sono persone perbene, hanno i soldi. Hai mai visto un film sugli zingari al cinema?

The Snatch, ma credo che lei intenda altro.

-Boh, non lo conosco quel film. Gli ebrei hanno i soldi, c’è Israele che finanzia la propaganda… Ma io dico: uno zingaro bruciato varrà quanto un ebreo bruciato, o no?

-Tutti gli uomini sono uguali, tutti dovrebbero avere la possibilità di raccontare la propria storia. Di denunciare. Penso al popolo armeno – aggiunsi.

Ero colpito, non pensavo che quell’uomo, di cui conoscevo una piccola parte della vita, ma del quale non sapevo il nome, potesse avere a cuore certi argomenti. Quindi, la mia domanda nacque spontanea – Allora, perché ha perseguitato i rom durante il regime Ceacesco?

-Che c’entra, quello è lavoro. Mi pagavano per farlo. E poi non fraintendermi, il mio era un discorso generico, non mi frega più di tanto di ‘ste minoranze. Era solo un pour parler.

-Niente di più.

Accese un sigaro, che comparve dal suo taschino. Strinse gli occhi e mi guardò.

– Io non parteggio per nessuno. Io non ho fantasia, non sono uno di quelli che pensa che le cose dovrebbero andare in un determinato modo. Non sono uno di quelli che crede che bisognerebbe inventare una determinata cosa per risolvere quel problema. Ho una mentalità pratica. Tu sei un comunista…

– Non sono un comunista!

– Si che lo sei, altrimenti non porteresti capelli lunghi e barba…

– Ok, mi arrendo

– Cosa?

– Nulla. Nulla.

– Dicevo, sono un ex meccanico e un soldato. Non ho spazio per la fantasia.  Per voi comunisti il soldato non ha immaginazione, forse è vero. O, almeno, è vero nel mio caso. Io vedo cosa c’è e cerco di sfruttare quello per raggiungere i miei risultati. Quando stavo sotto una macchina non potevo tormentarmi dicendomi dovrebbero inventare una pinza che… potevo e dovevo usare quella che c‘era – mi sorrise. Odiavo quei denti.

– Stessa cosa quando “lavoro”. Ci sono gli zingari da sistemare, io li sistemo. Non sto là a pensare, però, ma, tuttavia… bisognerebbe aiutare ‘sta gente dalla storia sfortunata…

– Ma prima mi ha detto che…

– Lo so cosa ho detto prima, ma non sto ancora lavorando – sorriso – sto in macchina con un amico a cui ho fatto un favore e che tra un po’ me lo ricambierà. Semplice, no?

– Non siamo amici.

– Non essere scortese – al sorriso, questa volta si aggiunse un leggero gesto della mano che stringeva la pistola. Continuava a farmi paura più quel ghigno.

Riprese a raccontare la propria storia. – Quando entravo in un accampamento rom, o in uno dei villaggi rom che il regime aveva creato…

– Come Valea Lui Stan?

– Esatto, Valea Lui Stan non era l’unico. Erano campi di concentramento, ma con il tempo sono diventate vere e proprie città.

L’abitacolo era pieno di fumo. – Quando arrivavo con la mia squadra in quei posti gli abitanti mi conoscevano. Probabilmente, tra di loro c’erano anche figli miei – accompagnò la frase con un gesto del bacino – non ebbi difficoltà a diventare il loro “protettore”. Loro lavoravano per me e chi si rifiutava… non aveva altre possibilità di rifiutare, se capisci quello che intendo…

Capivo, ma non fiatai.

– Le cose andavano bene, giravo da villaggio in villaggio. Prendevo quello che c’era da prendere e andavo via. Ero nomade tra i nomadi. Non volevo rimanere più di un anno nello stesso posto. Alla lunga si sarebbero ribellati e il terrore non sarebbe bastato a tenerli a bada.

Notai con mia sorpresa che non stavamo dirigendoci verso il canile, ma in aperta campagna. Imboccammo un strada carrabile che mise a dura prova la Punto.

– Avevo nostalgia di casa. Intendo dell’Italia, non di quella che era la mia abitazione prima di entrare nell’esercito. Presi con me una cinquantina di uomini e inizia a fare anche qui quello che facevo in Romania.

– Da quanto tempo è tornato in Italia?

– Credo tre anni – spense il sigaro e lo infilò nel taschino – E’ stato difficile. Qui non avevo la mia fama che mi precedeva. Ma con le buone o con le cattive mi sono fatto una reputazione anche qui.

Girò la manopola e abbassò il finestrino. Inspirò l’aria della campagna e riprese a parlare.

– Quando arrivo in un villaggio, vado dai capi e spiego loro cosa devono fare. Non tocco le loro tradizioni, non me ne frega un cazzo di quello che fanno quando non lavorano per me.  E poi già non sono loro simpatico, figuriamoci se… Fermati qua.

Eravamo arrivati in campo, c’era un mini van ad aspettarci.

– Che cazzo hanno portato quei coglioni? – disse il mio sequestratore.

Si catapultò verso gli uomini che si trovavano vicino al van e iniziò a gesticolare. Non riuscivo a sentire quello che si dicevano. Non potevo neanche tentare la fuga perché in macchina con me c’erano gli altri due miei compagni di viaggio.  E fuga per dove, poi? Là era tutta campagna e loro erano in cinque. Mi avrebbero ripreso con facilità.

– Tu vai con loro – disse ad Adrian, mentre rientrava in macchina – devono cercare un camion, aiutali. Poi raggiungeteci al canile, vi aspetteremo là. Voglio un cazzo di camion! Ci devo mettere… – si volto verso di me – quanti cani ci sono?

Non risposi, più per paura che per coraggio. Mi puntò la pistola alla tempia.

–  Quarantadue – risposi, più per paura che per coraggio.

– Ci devo mettere quarantadue cani. Ora va’!

Adrian, senza fiatare, sgattaiolò dalla macchina.

La nostra macchina si mise in marcia verso il canile. Questa volta il viaggio fu silenzioso e carico di tensione.

***

            Dopo circa un quarto d’ora di marcia, arrivammo al canile. Scendemmo e fui condotto alla porta. Presi le chiavi, disinserii l’allarme e aprii il cancello.

Io e il mio, ormai, “silenzioso amico”, entrammo a piedi. Lo zingaro ci raggiunse con la macchina. Dopo averla parcheggiata, venne verso di noi.

-Vai all’ambocco della strada e controlla che non arrivino scocciatori.

Disse proprio ambocco, non imbocco. La cosa mi stupì: sin ora l’uomo che, amorevolmente, mi aveva puntato un pistola alla fronte aveva sempre parlato in un italiano perfetto. Certo pure io uno strano lo sono, se mi metto a pensare a certe cose mentre dovrei escogitare un piano per salvare capre e cavoli.

Rimanemmo soli. Non mi temeva, aveva riposto la pistola nei pantaloni, nel girovita.

Se si escludeva il saltuario abbaiare dei cani, la tranquillità regnava sovrana. Anzi, era una bella giornata. Una di quelle che ti fa venir voglia di un giro in campagna. Possibilmente, senza nessuno che ti punti una pistola alle tempia. È strano come un posto che normalmente ti è familiare possa diventare sinistro in determinate condizioni. Non mi sentivo a mio agio, quasi soffrivo lo sguardo dei cani posato su di me. Vedevo qualcosa di accusatorio nei loro occhi, quasi avessero subodorato il mio tradimento. -Dicevi sul serio prima?

Mi guardò sorpreso, era la prima volta che gli davo del tu e la cosa lo stupì. Forse, avevo sbagliato. Ma volevo creare un’ atmosfera amichevole. Era necessario per l’abbozzo di piano che stava nascendo nella mia mente.

– A che riguardo?

– Che per gli zingari un favore è una cosa sacra.

– Sì, certo.

– E vale anche per te questo?

– Certo, perché?

– Perché mi state restituendo la macchina in cattivo stato.

– Ma se l’abbiamo anche lavata!

– Mi riferisco al rumore che fa  il motore.

– Il rumore del motore? Ma che cazzo dici!

– Senti, la macchina fa un brutto rumore.

– La macchina non fa nessun rumore. Punto.

– Punto un corno! Non stai mantenendo il tuo impegno, se mi ridai la macchina in quelle condizioni.

Prese la pistola, me la puntò alla fronte.

– Entra in macchina e accendi il motore. Ricordati che questa è puntata alle tue tempie. Niente scherzi.

Accesi la macchina.

– Ora  apri il cofano, lascia il motore acceso e scendi.

Misi in folle e scesi.

Mi fece cenno con la pistola di alzare il cofano. Lo feci.

– Nessun rumore? – dissi.

– Nessuno.

– Io continuo a sentire una specie di shhhhhhhhhh che prima non c’era.

Volevo riaccendere il suo orgoglio di finto zingaro e volevo far leva sul suo passato di ex meccanico. L’aver messo la pistola a posto quando eravamo rimasti soli e, soprattutto, l’esser rimasto con me da solo,  mi faceva credere che non mi ritenesse un rischio. Probabilmente, aveva ragione: lui ex spia cosa aveva da temere da uno come me?

– Do un’occhiata al motore – rimise la pistola nel pantalone.

Si calò e mise la testa sotto il cofano. Avevo solo una carta da giocare e la giocai. Con la mano urtai l’asticella che manteneva il cofano aperto e questo cadde violentemente sul capo dell’ ex meccanico. Lo sentii urlare. Mi lanciai con tutto il mio peso sul cofano e lo schiacciai.

Il motore acceso doveva essere bollente. Le sue urla arrivavano alle mie orecchie, la puzza di carne bruciata al mio naso.

Mi trascinai sul cofano e misi seduto. Tenevo le gambe larghe, perché lui era tra esse. Se fosse passato qualcuno e ci avesse visto, ci avrebbe scambiati per “due ragazzacci” intenti in un “lavoro di spurgo idraulico”.

Lui cercò di alzarsi e, grazie alla propria mole e all’adrenalina alle stelle per il dolore, riuscì a farmi rotolare via.

Mi ritrovai per terra. Le pietrine che ricoprivano il suolo mi escoriarono viso e mani. Erano piccole scintille che pulsavano. Mi misi in ginocchio per rialzarmi. Fu in quel momento che lo vidi. Eravamo faccia a faccia. Lui mi era caduto addosso, ma poi eravamo rotolati in direzioni differenti. Ci ritrovammo entrambi a quattro zampe con i visi che quasi si sfioravano. Nel suo caso il termine viso era un eufemismo. Quello che rimaneva della sua faccia era uno spettacolo raccapricciante e angosciante allo steso momento. Una maschera di carne bruciata. Bubboni e sangue la ricoprivano. Le sue palpebre erano fuse con il resto del viso e non poteva aprirle. L’istinto dell’ex soldato, però, prese il sopravvento sul dolore. Allungò la mano nella mia direzione, a casaccio o perché percepiva il mio respiro, e mi bloccò il polso per tirarmi verso di sé. Venendo meno l’appoggio di una mano mi ritrovai di nuovo steso a terra con il viso nella polvere. Ma ciò che era peggio è che mi stavo avvicinando sempre più a lui e in un corpo a corpo avrei avuto sicuramente la peggio: non ero abituato a lottare e il suo corpo era molto più pesante del mio. Le punte aguzze delle pietre aprirono nuove microferite.

Lui agiva in preda alla rabbia e questa fu la mia fortuna. Diede uno strappo troppo violento al mio braccio, urlai di dolore, ma la cosa ebbe il vantaggio di farmi compiere una capriola su me stesso. Non so quale dio guidò il mio piede, ma resta il fatto che gli stampai un calcio in faccia. Lui mi lasciò e io mi tuffai via.

Lo sentii urlare per l’ennesima volta in quella giornata. Le grida erano attutite dalle mani che aveva portato sul viso. Quando le tolse vidi la forma del carrarmato del mio anfibio ben impresso nella sua carne. Evidentemente la carne era ancora morbida dopo il contatto con il motore della macchina e come argilla si era modellata alla suola della mia scarpa.

Decisi di scappare in direzione degli uffici amministrativi. Dovevo chiamare la polizia. Puntavo tutto sul fatto che lui fosse distratto dai suoi dolori.  I pochi metri che mi separavano dalla porta furono interminabili. La carne del suo volto, rimasta attaccata alla mia suola, produceva un suono disgustoso quando posavo e alzavo la scarpa dall’asfalto. Arrivato sotto il patio cercai le chiavi nelle mie tasche, ma non ebbi il tempo di trovarle.

Il primo proiettile andò perso chissà dove nel canile. Se non ci fosse stato il rumore dello sparo, non mi sarei accorto di nulla. Ma il mio istinto mi fece gettare per terra. Lui aveva portato la mano alla pistola mentre cercavo di raggiungere il telefono, e aveva iniziato  a sparare a casaccio.

L’urlo di dolore fu micidiale quando il suo unico colpo andò a buon fine. Fortunatamente, non fui io a essere colpito, ma lo zingaro che era giunto al canile con noi. Nella frenesia degli eventi mi ero scordato di lui, ma richiamato dalle urla del suo capo era corso da noi. Quella fedeltà gli era stata fatale.

Dovevo chiamare la polizia, ma avrei impiegato troppo tempo ad aprire la porta dell’ufficio. Mi trascinai verso una delle cucce, misi la mano in tasca e tirai fuori l’accendino che mi aveva regalato Gilberto. Puntai la fiamma su uno dei dispositivi antincendio, l’allarme iniziò a urlare. Il congegno prevedeva l’inoltro automatico di due telefonate. Una ai pompieri. Una alla polizia municipale. Era questa che mi interessava di più, la caserma dei vigili si trovava a non meno di cinque minuti di macchina dal canile. Probabilmente, il rumore delle sirene era giunto alle loro orecchie prima ancora del trillo del dispositivo di allarme.

Il mio rivale continuava a barcollare nel cortile, mi ricordava l’omino della Michelin intento a ballare una tarantella. Ci sarebbe stato da ridere, se non fosse stato per quel viso deturpato. E la situazione era peggiorata da quando era riuscito a sbalzarmi via, poiché ogni volta che si toccava il volto un pezzo di carne rimaneva attaccato alla mano.

Dovevo metterlo kappao, così presi l’idrante che utilizzavamo per pulire le cucce e glielo puntai addosso. Il forte getto lo spinse indietro, la cecità fece il resto. L’uomo cadde di peso nella vasca dove convergeva l’acqua sporca che usciva dalle cucce dopo la pulizia. Acqua e merda non avrebbero fatto bene alla sua pelle. Quello era poco, ma sicuro.

***

            I vigili urbani impiegarono meno dei cinque minuti che avevo previsto. I vigili del fuoco ce  ne misero meno di dieci. Grande fu la loro sorpresa nel constatare l’assenza di incendi. Per quanto fosse stata grande la loro meraviglia, non raggiunse minimamente i livelli di quella provata dai tre zingari giunti al canile con il camion sul quale avrebbero dovuto caricare i cani. Al loro arrivo trovarono ad attenderli, non solo vigili urbani e pompieri, ma anche la polizia.

***

            I  giorni successivi furono tremendi. Fu un continuo andare e tornare dalla questura.  Il fatto poi aveva anche attirato l’attenzione dei media locali che iniziarono a sostare sotto casa in attesa di mie dichiarazioni. La stampa mi aveva soprannominato “il nuovo Davide che aveva sconfitto il Golia venuto dall’Est”. Dimenticavano che il capo dell’organizzazione era italiano.

Piovvero attestati di stima da parte delle famiglie benpensanti. Alcuni iniziarono a paventare un mio ingresso in politica. Vedevano in me il condottiero che li avrebbe guidati nella loro crociata conto gli zingari.

Il muro sotto casa fu imbrattato dalle scritte dei movimenti neofascisti che inneggiavano alla mia figura. Dopo alcuni gironi fecero la propria comparsa i controslogan dei ragazzi del centro sociale: ce l’avevano con me, nonostante avessi capelli lunghi e barba…

Gli amici mi furono vicini e devo ringraziare loro se non impazzii per il terrore quando seppi che la polizia non mi avrebbe garantito più nessuna protezione, a circa dieci giorni dalla sparatoria nel canile. Avevo fatto arrestare un banda di malavitosi e ora mi trovavo indifeso contro le eventuali ritorsioni dei membri ancora a piede libero.

Quindi, quando trovai infilata sotto la mia porta una busta immaginai le cose peggiori che potessero capitare a un uomo. Erano due giorni che vivevo nel timore di rappresaglie da parti degli uomini di Grassi. Sì, perché finalmente ero riuscito a dare un nome al tizio che avevo sfregiato in modo permanente.

Raccolsi la lettera con mani tremanti e iniziai a leggere. Il testo era scritto in un italiano approssimativo, ma era facilmente comprensibile, nonostante la grafia incerta.

Non era altro che un ringraziamento da parte della comunità rom che, in cambio della mia liberazione, mi prometteva protezione, qualora fossero tornati gli scagnozzi di Grassi. Evidentemente, senza il loro capo e i suoi uomini più fidati, si sentivano sicuri. Mi dicevano di non preoccuparmi se il campo nomadi era stato sgombrato dalla polizia, quello non era un problema per loro: sarebbero tornati, com’era sempre avvenuto.

Un passaggio  della lettera, che non sarebbe sfuggito al mio amico Gino, era quello in cui il mio misterioso protettore dichiarava che, inoltre, nessuno avrebbe toccato il mio appartamento e, soprattutto, la mia macchina. Perché, concludeva la lettera, ogni favore va ricambiato. E questo lo sapevo bene: era stata la mia fortuna.

Non tutta la merda viene per nuocere

Posted in LaLittératureDuMarronoir on 14/04/2011 by gfcassatella

Ho visto più merda io, in questa storia, di quanta ne veda una supposta di glicerina nel culo di uno stitico. E dire che le cose, in quel periodo, mi stavano andando bene. Finalmente avevo trovato un lavoro, al canile municipale. La paga era onesta e al fetore di cacca e di cane bagnato mi ci ero abituato presto. Non avevo una donna, ma in compenso le mie mani erano in grado di andare su e giù con la leggiadria di uno scoiattolo con un petardo infilato nel culo e riuscivo a tirare avanti…

Mi trovavo a casa e leggevo, quando rientrò Gino.

– Che fine hai fatto? Sono cinque giorni che manchi.

–  Ti sei preoccupato?

– Tanto. Non mi sono fatto seghe per paura di consumare i kleenex, e rimanerne senza nel caso in cui avessi dovuto piangere la tua morte.

– Carino da parte tua. Ho semplicemente trovato un lavoro.

– Di che si tratta?

– Faccio il corriere per un mago della tv. Porto a casa dei clienti amuleti e bottigliette piene di piscia di gallina.

– Bello come lavoro – accesi una sigaretta – onesto, soprattutto.

–  La vera cosa illegale è la stupidità di chi ci crede – mi rispose Gino, mentre si toglieva la giacca.

– Quella è la mia maglietta dei Venom!

– Sì.

– Non era una domanda.

– Sai, ho pensato che facesse un certo effetto presentarsi a casa dei clienti con una maglia con caprone e pentacolo. Te la lavo subito.

– Gentile. Non mi hai detto perché sei mancato da casa cinque giorni.

– Sono stato a Torino, ho ritirato un pacco per Magnificat.

Solo in quel momento feci caso al pacco, grosso quanto una scatola di scarpe, che Gino aveva posato sul tavolo.

– Che razza di nome è?

– Boh, alla gente piace. Ci casca. Scusami ora devo cagare.

Finite le sue operazioni corporali, Gino tornò da me, in soggiorno.

– Avrei dovuto consegnare il pacco a Magnificat appena tornato da Torino. In realtà, il mio collega Gregorio mi ha lasciato sotto il palazzo del capo, ma io dovevo cagare e il bagno di Magnificat è rotto. Erutta merda. Sai, io sono un tradizionalista, preferisco che la merda vada dal sedere al cesso e non il contrario.

– E’ bello che in giro ci sia gente con sani valori, come te.

– Ho preferito venire qua al bagno, tanto sono due passi a piedi. Il pacco glielo porto domani mattina, non credo che possa morirci per sta cosa.

– Domani è il mio giorno libero, vorrei andare a pescare.

– Consegniamo la scatola e ci andiamo insieme.

Salutai Gino e andai a dormire. Fu un sonno tranquillo e pieno di scorregge. Il mio preferito.

L’indomani mattina ci svegliammo e andammo al bar per fare colazione e dare un’occhiata alla Gazzetta dello Sport. La vecchia palla di cuoio continuava a rotolare, nonostante tutto.

Il palazzo nel quale riceveva Magnificat era vecchio, ma ben tenuto. Entrammo nel portone e Gino chiamò l’ascensore.

– Io non ci entro là dentro – dissi.

– Perché?

– Mi ricorda Profondo rosso.

Era uno di quegli ascensori con lo scheletro in metallo lavorato in stile liberty, che lasciava la cabina in legno in vista.

– Non fare lo stronzo, Mario, sono sei piani.

– Non ci entro.

– Ok, mi aspetti qui. Consegno il pacco e andiamo a pesca.

– Non ci penso neanche, voglio vedere che faccia ha un tizio che si fa chiamare Magnificat.

– Ti do una Polaroid del mio culo, è la stessa cosa.

Salimmo a piedi, quando m’impunto sono peggio di un toro con un’infezione alle palle.

La porta, pesante e in legno, era socchiusa. Gino, avendo le mani occupate dal pacco, vi si poggiò con la spalla e l’aprì.

– Eccelso! – chiamò.

Scoppiai a ridere. Gino mi fece una facciaccia e si portò l’indice al naso per farmi fare silenzio.

– Eccelso Magnificat – continuò a gridare, con voce sempre più alta.

Nessuna risposta. Percorremmo il lungo corridoio, sulle cui pareti erano attaccate foto dell’Eccelso e quadri con raffigurazioni arcane. Gino bussò, ma non ebbe risposta. Aprì la porta.

– Oh, mio Dio – lo sentii esclamare.

Mi sporsi e capii le ragioni della sua reazione. La stanza era sottosopra, libri e oggetti dalle forme più strane erano sul pavimento. Steso per terra c’era un ciccione avvolto in una tunica bianca a pois neri, con striature in oro. Parte del vestito era sollevato e scopriva le grosse natiche coperte parzialmente da un perizoma rosa confetto. La testa pelata era poggiata in una pozza di liquido rosso.

– L’hanno ammazzato – disse Gino.

– Sarà stato lo spirito protettore del buongusto? – risposi, dandomi subito dello stronzo.

Quando sono teso divento più stronzo del solito.

Gino poggiò il pacco sulla scrivania dell’Eccelso cadavere e mi disse: – Che facciamo?

– Troviamo una cabina telefonica, se esistono ancora, e chiamiamo la polizia. Poi ce ne andiamo a pesca.

Scoprimmo che le cabine telefoniche esistevano ancora.

Passammo il resto della giornata pescando a Finiis Terrae. Il nome al posto l’avevo attribuito io, dato che oltre non ci si poteva andare con la macchina. Se il nomignolo era carino, il posto faceva schifo. Era più probabile riuscire a pescare un bottiglione di detersivo per piatti che un pesce.

Però era un luogo in cui potevi fumare in santa pace uno spinello senza che nessuno venisse a crearti rogne. La pesca fu insoddisfacente, ma riorganizzammo le idee. Non potevamo dimenticare ciò che avevamo visto in quella stanza, era orribile quel perizoma rosa. Concordammo sul fatto che nessuno ci avesse visti salire, che qualcuno cercava qualcosa in quella stanza e che quel qualcosa poteva essere il pacco portato da Torino. Gino sapeva per certo che Magnificat quel pomeriggio doveva incontrare degli acquirenti per l’oggetto. Facile presumere che lui non fosse l’unico a saperlo e che la sua cagata avesse impedito ai ladri di trovare la scatola nella stanza del mago. Ci sentivamo al sicuro per alcuni motivi: primo, nessuno sapeva, polizia in primis, che Gino lavorava per Magnificat. Secondo, avevamo lasciato il pacco nello studio del cadavere, quindi gli interessati non avevano alcuna ragione per venirci a cercare, se fossero stati a conoscenza della nostra esistenza. Dissuadere Gino dell’idea che la propria merda aveva ammazzato Magnificat fu la cosa più complicata, ma alla fine se ne fece una ragione.

Una volta in macchina, accendemmo l’autoradio. Il giornalista parlò dell’Eccelso definendolo un truffatore, e accennò alla vendetta di qualche gabbato quale presunto movente per la polizia. Non si escludeva una pista legata al mondo delle sette sataniche.

Parcheggiammo l’automobile sotto casa e arrivammo a piedi al palazzo di Magnificat. Se c’era stato movimento dopo la nostra telefonata, era finito. L’unico segnale visibile di ciò che era accaduto erano i sigilli della polizia.

Tornammo a casa e quando aprii la porta trovammo tre tizi che ci puntavano, amorevolmente, le loro pistole. Era un trio male assortito: uno era alto con capelli lunghi, barba incolta e abbigliamento trasandato;gli altri due erano bassi ed entrambi con il riporto. Parevano un sorta di “ritratto di Dorian Grey” del barbuto. Più il gigante cresceva in altezza e in “peluria”, più gli altri due si abbassavano e spelavano. Certo ‘sto pensiero è una stronzata, ma quell’incontro mi insegnò che nell’universo ci sono delle leggi che regolano l’equilibrio generale. Per ogni stronzo di due metri ce ne sono due di un metro.

– Buonasera – disse Dorian Grey con l’aria di uno che si era preparato questa esaltante battuta di ingresso almeno da tre giorni.

– “Buona” sera è una parola grossa – rispose Gino per entrambi.

Ritratto uno disse: – Non è carino parlare così a degli amici.

– Gino è un po’ nervoso, ha le sue cose. Scusalo.

– Dovete seguirci. Se lo fate educatamente, non avrete problemi – questa volta era stato Dorian Grey a parlare.

– Abbiamo alternative? – disse Gino.

– Direi di no – rispose Ritratto uno.

Fu così che ci condussero in un furgoncino. Ritratto due si mise alla guida, mentre Dorian Grey e Ritratto uno ci puntavano le armi.

– Mettetevi queste – disse Dorian Grey, porgendoci delle bende nere.

– Mi rovino i capelli se mi metto questa cosa sulla fronte – risposi.

– La devi mettere sugli occhi, stronzo – intervenne Ritratto uno.

– Non ti incazzare, non è colpa mia se l’etichetta con le istruzioni è in cinese – risposi.

– Fammi un po’ vedere – dicendo così Ritratto uno allungò la mano.

Dorian Grey calò violentemente la pistola sulla mano tesa del suo compagno, si sentì un rumore sinistro.  –  Coglione, ti sta prendendo per il culo.

Indossammo le fasce e devo ammettere che la situazione migliorò, non erano un bello spettacolo i nostri accompagnatori. La cosa più complicata fu non farmi tornare in mente l’immagine di quel perizoma rosa, fortunatamente il viaggio non fu molto lungo.

All’incirca a metà della nostra gita, una leggera pioggerellina cominciò a battere sulla carrozzeria del furgone; al momento del nostro arrivo a destinazione la pioggia diventò più insistente. Ci fecero smontare dalla macchina e, senza liberarci dei nostri bendaggi, fummo spinti in una costruzione. Una volta all’interno, sentii una mano che stringeva violentemente la mia spalla e mi trascinava per i corridoi della casa. Avvertii il rumore di una porta che si apriva dinnanzi a me e un forte odore di candela. Attraversai la porta senza che il mio angelo custode mollasse la presa.

– Potete togliere le bende – riconobbi la voce di Ritratto uno.

Quando mi scoprii gli occhi mi resi conto che la mia intuizione era stata giusta, la mano sulla mia spalla era di Dorian Grey che continuava a stringere. Quello che non avevo immaginato era che contemporaneamente alla mia di spalla stringesse anche quella di Gino.

– Puoi lasciare i nostri ospiti, Marco.

Chi aveva parlato si trovava alle mie spalle. Le sue parole sortirono effetto, Marcodoriangrey mollò le nostre spalle.

La figura che aveva dato l’ordine si stagliò dinnanzi a noi. Era la fotocopia di Christopher Lee:  alto, magro, dinoccolato e con un naso importante. Era vestito con una sorta di saio di color nero e aveva delle occhiaie nere come il carbon.

– Dovete scusare Marco, non si rende conto di quanto siamo tutti piccoli e indifesi rispetto a lui.

Riesce a far male, molto male, senza neanche accorgersene. Certo, quando vuole far male veramente, ci riesce molto più brillantemente, ma sono certo che voi non abbiate voglia di scoprirlo.

– La curiosità è donna – risposi – e qui siamo tutti uomini.

Christopher Lee emise una sonora risata – Sarà un piacere concludere affari con voi. Mi sembrate persone sveglie e dotate di buon senso.

– Lei ci lusinga, troppo buono – l’ho detto o no che quando sono teso divento più stronzo?

– Vi starete domandando perché vi ho fatto portare qui.

– Ci vuole presentare una batteria di pentole, scommetto – dissi atteggiandomi da duro, ma ero terrorizzato.

– No, no, la mia offerta è più interessante. Come avrete potuto notare dall’arredamento noi ci occupiamo di “intrattenimento”.

La stanza era adornata con quadri raffiguranti messe nere, alcuni erano dipinti, altri erano foto vere e proprie. Alle spalle del nostro interlocutore c’era un’enorme testa di caprone impagliata.

Il “trofeo” era circoscritto all’interno di un pentacolo color oro dipinto sulla parete. Statuine raffiguranti scene di sesso o semplicemente organi sessuali, maschili o femminili, erano state riposte su delle mensole. Una parete era occupata da una libreria, da dove mi trovavo non riuscivo a leggere i titoli, ma non era difficile immaginare che fossero testi di magia.

– Sapete, c’è gente che cerca “emozioni” e “spiritualità”. Noi gliele forniamo.

– Dietro lauta ricompensa, immagino – intervenne Gino.

– Sono libere donazioni alla nostra chiesa. Noi organizziamo cerimonie e loro si ricongiungono con Satana. Poi tornano felici ai propri SUV e dai propri bambini.

– Scommetto che ci avete “invitato” perché siete alla ricerca di due chierichetti, vero? – questa volta fui io a parlare.

– No, no – rispose Chistopher Lee, sorridendo. – La cosa che vi sto proponendo è conveniente per entrambe le parti.

– Spari pure – quando si parla di soldi Gino è sempre stato più pronto di me.

– Voi, stamattina, eravate in possesso di una cosa che a noi interessa molto: l’Occhio di Terensill.

– L’occhio dell’attore? – dissi sbigottito.

– Non so di che attore parla, ma arguisco che voi non leggete i giornali.

– Lui li legge – disse Gino, indicandomi con il pollice.

– Tutti i giorni la Gazzetta dello Sport – confermai.

– Amante della cultura – ironizzò Lee.

– No. Da piccolo papà abbandonò me, mamma e le mie tre sorelle. Lei capisce bene che essendo cresciuto in un ambiente femminile, ora io non possa che essere attratto, irresistibilmente, dagli oggetti di color rosa. Perizoma esclusi, pensai tra me.

– Bando alle ciance. Se aveste letto i giornali, sapreste che circa una settimana fa è stato rubato a Torino un reperto di origine sumera, l’Occhio di Terensill. Non starò qui a farvi una lezione di storia e né tanto meno una lezione di esoterismo, ma sappiate che a noi interessa tanto e che siamo disposti a pagare pur di entrarne in possesso.

– Scommetto che l’Occhio si trova in una certa scatola che doveva essere consegnata a un certo mago e che poi questo certo mago lo doveva consegnare a una certa setta – dissi.

– Lei è un uomo arguto.

– Non ne siamo più in possesso.

– Lo sappiamo, vi abbiamo visto entrare nello studio di Magnificat con la scatola e uscirne senza.

–  Esatto – rispondemmo all’unisono, io e Gino.

– Voi dovete semplicemente andarla a riprendere per conto nostro. Noi vi pagheremo quanto pattuito con Magnificat. Duecentocinquantamila euro.

– Ci stiamo – rispose Gino.

– Un attimo, alcune cose non mi sono chiare – ero meno incline al fascino dei soldi, rispetto al mio amico.

– Chieda, le chiarirò tutto.

– Primo, avete ammazzato voi Magnificat?

– No, per chi ci ha presi? Noi non ammazziamo nessuno, al massimo rapiamo delle vergini per le nostre cerimonie, ma non le ammazziamo – disse con voce offesa, mister Lee.

– Questo vi fa onore – ironizzai. – Fossi in voi terrei sempre lo smoking pronto nell’armadio, dovesse arrivare un invito da Stoccolma per andare a ritirare il Nobel per la pace…

– Vada avanti con le domande, state abusando della mia pazienza.

Era vero, stavo tirando la corda. Non ero un eroe e i soldi mi interessavano. Tornai serio.

– Seconda domanda: perché pagare noi, se possono andare loro tre? – Con il capo indicai il trio Dorian Grey.

– Perché loro fanno tanti lavori per la nostra chiesa e se dovessero essere presi con le mani nel sacco potrebbero essere ricollegati a noi senza problemi. Meglio dei “consulenti esterni” come voi, senza contatti apparenti con noi. Non dimentichi che Gino ha lavorato per Magnificat e, nel caso fosse scoperto con l’Occhio, apparirebbe plausibile un suo coinvolgimento nell’omicidio. E questo allontanerebbe le attenzioni della polizia da noi.

– Chi ci assicura che il pacco sia ancora là?

– Abbiamo le nostre fonti al distretto di polizia.

– Che potrebbero procurarvi la scatola, no?

– Sì e no. Sono sempre poliziotti. Perché correre il rischio di essere arrestati da loro dopo che hanno intascato la nostra ricompensa per l’Occhio?

– Ci sto! Mi ha convinto.

– Ho anche io una domanda – disse Gino. – Se siete disposti a pagare duecentocinquantamila euro per rientrare in possesso dell’occhio, a quanto lo rivenderete?

– Non è delicata questa sua domanda, ma voglio risponderle, per quanto mi è possibile. Alcuni nostri clienti sarebbero disposti a pagare cifre astronomiche pur di entrare in possesso dell’Occhio dopo che è stato immerso nel sangue di vergine durante una delle nostre cerimonie. Non mi chieda di più.

– Lo credo, il sangue di vergine è rarissimo di questi tempi – questa mia battuta infelice mise termine alla conversazione.

Dopo aver stabilito i termini di consegna della refurtiva, fummo affidati alle cure di Ritratto due che ci bendò, ma evitò di puntarci le armi. Ormai eravamo colleghi. Quando fummo all’aperto ci ritrovammo sotto una pioggia fittissima. L’essere in macchina bendati e sentire il forte rumore dell’acqua sulla carlinga, non rese il nostro ritorno a casa piacevole. Il problema principale era come entrare nell’appartamento, io e Gino non eravamo degli scassinatori, non lo avevamo mai fatto, ma avevamo duecentocinquantamila ragioni per imparare. Nonostante le nostre peggiori previsioni, Ritratto numero due ci lasciò, sani e salvi, a casa. Aprii la porta dell’appartamento e fu il buio.

Quando ritornai in me vidi Gino parlottare con un tizio che non avevo mai visto. Il mio compare sanguinava vistosamente dalla fronte. Fare due più due non fu difficile. Lo sconosciuto ci aveva aspettato in casa e colpito alla testa. Anche io sanguinavo.

– E’ lui? – chiesi.

– Sì, è lui che l’ha fatto fuori – mi rispose Gino.

– Non ci presenti? – disse lo sconosciuto.

– Mario, lui è Gregorio. Il mio collega, Gregorio.

– Scusa se sono un po’ freddo nel conoscerti, ma ho un forte mal di testa – dissi.

– Me ne farò una ragione. Sopravvivrò.

– Ora che entrambi siete svegli, è arrivato il momento di darmi il pacco.

– Non l’abbiamo.

– Gliel’ho detto anche io – confermò il mio coinquilino.

– Io ho lasciato te dal mago con il pacco, ho rivoltato quel cazzo di studio e non ho trovato nulla. Dovete averlo voi, per forza.

– Perché ammazzarlo? – chiese Gino.

– Non volevo farlo, non era in programma. Non era nulla in programma. Se avessi saputo che cosa avevamo preso a Torino, non sarei mai tornato in questa città.

– Quando l’hai scoperto? – domandai.

– Ieri mattina, leggendo il giornale.

– Dovremmo iniziare a leggere i giornali anche noi – commentai.

– C’era un articolo sull’Occhio di Terensill sparito a Torino. Sapevo che gli acquirenti non sarebbero arrivati dal mago prima delle dieci, e così mi sono recato nel suo studio. Gli ho ordinato di consegnarmi il pacco, ma lui ha negato di averlo, anzi, ha sostenuto che l’avessimo io e te, Gino.

Non gli ho creduto, mi fidavo di te, ma soprattutto della tua ignoranza. Non potevi sapere cosa avevamo recapitato al mago. Mi sono innervosito e l’ho colpito. Ho messo sottosopra lo studio, ma non ho trovato nulla. Sono giunto alla conclusione che il pacco ce l’avevi tu. Sono corso subito qui, ma non ti ho trovato. Vi aspetto da stamattina. E’ arrivato il momento di premiare la mia attesa, datemi l’Occhio.

– Non l’abbiamo noi – ripeté Gino. – E’ nello studio del mago, lo abbiamo lasciato stamattina quando abbiamo trovato il cadavere. Hai ragione, non conoscevo il contenuto del pacco e la mia ritardata consegna è dipesa da problemi “corporali”. Quando ho consegnato il pacco, tu avevi già fatto il tuo lavoro.

Capii che quello era il momento di intervenire. Avevamo poche speranze di uscirne vivi.

– L’Occhio è nell’appartamento del mago, ben nascosto. Avevamo questa scatola di cui non conoscevamo il contenuto e abbiamo deciso di lasciarla là, non volevamo che risalissero a noi quelli della polizia, così l’abbiamo nascosta. Ora ci tocca andare a riprenderla, se ci accompagna possiamo dividere per tre il ricavato della vendita -. Non ero uno stupido, sapevo che Gregorio non avrebbe diviso con noi, ma mi sembrava l’unica possibilità di uscire vivi dal nostro appartamento e abbozzare un tentativo di fuga.

– Ci sto.

Così ci ritrovammo tutti e tre all’aperto, sotto la pioggia. Decidemmo di andare a piedi, poiché le strade erano allagate e impercorribili con l’auto. Le fogne non riuscivano a contenere l’acqua e la restituivano con interessi sotto forma di merda. Procedevamo in fila indiana, con Gregorio alle nostre spalle. Non ci fu possibile fuggire. Il portone era aperto e, mio malgrado, fummo costretti a salire con l’ascensore. Scoprii che una pistola è un ottimo “antipanico”. Arrivati alla porta, fu Gregorio a risolvere il problema, aprì utilizzando un coltellino svizzero. Percorremmo il lungo corridoio e arrivammo nella stanza del mago. Non era cambiato molto da quella mattina. Al posto del cadavere c’era la sua sagoma disegnata sul pavimento. C’erano dei tagliandini applicati dalla polizia sui vari reperti, uno in particolare era appiccicato su una scatola anonima. Non fu difficile per Gregorio riconoscere ciò che cercava.

– Ben nascosta eh?

– Non abbiamo molta fantasia, a nascondino mi beccavano sempre. Ci sarà stato un motivo – ormai avevo perso ogni speranza di uscire vivo da questa storia.

– Immagino che sappiate cosa vi aspetta ora, vero? – disse muovendo in modo esplicito la pistola.

– Spaghettata? – domandai.

– Direi di no. Prendetene uno per ognuno – indicò dei cuscini su una grossa poltrona.

Ubbidimmo e ci condusse in bagno. Ci fece sistemare nella vasca da bagno e aprì i rubinetti della vasca, del lavabo e del bidet.

– La pioggia, il rumore dell’acqua corrente e il cuscino che ora voi, gentilmente, poserete sul vostro stomaco, attutiranno il rumore degli spari.

– Ragioniamo – dissi, cercando di prender tempo. Tempo chissà per cosa. – Se ci uccidi che ci guadagni? Prenditi la scatola e va via, no?

– Non mi va di lasciare in giro gente che sappia che ho ucciso un tizio e che posseggo l’Occhio.

Su fai il bravo, metti il cuscino sullo stomaco.

– Perché dovrei aiutarti ad ammazzarmi?

– Hai ragione – mentre parlava colpì con il calcio della pistola Gino, che cadde nella vasca. – Ora non ho bisogno del suo aiuto, glielo metto io il cuscino sullo stomaco. La stessa cosa vale per te – detto questo, alzò il braccio nell’atto di colpirmi, sennonché uno strano rumore giunse dal water posto alle spalle di Gregorio. Il mio futuro assassino si girò di scatto ed ebbe giusto il tempo di imprecare: – Ma che diavolo! – che dalla tazza del water partì un’eruzione di merda. Il più grosso geyser marrone che avessi mai visto. Il getto finì direttamente nei suoi occhi, e Gregorio lanciò un grido: – Ma che cazzo! – . Non so dove trovai la prontezza per raccogliere da dentro un lago di merda il pesante portaspazzolone per il cesso. Colpii con tutta la mia forza Gregorio, che cadde di faccia nel lago di merda, perdendo i sensi.

Scossi più volte Gino, finché non riprese conoscenza. – Cazzo è sta puzza? – si guardò intorno e si rese conto che il pavimento del cesso era pieno di acqua e cacca, e che lo stronzo più grosso, Gregorio, vi ci sguazzava dentro, sanguinante e privo di sensi.

– Dobbiamo scappare – dissi sollevandolo.

Lo trasportai fuori dal bagno. Corremmo giù per le scale dopo aver recuperato la scatola, producendo non poco rumore. Sentimmo diverse porte aprirsi dopo il nostro passaggio e alcune voci gridare. Era comprensibile: quella stessa mattina era stato trovato un cadavere in quel palazzo, e ora tutti erano sul chi vive.

L’odore di merda per la strada non era minore, l’intero sistema fognario cittadino sembrava in tilt, per nostra fortuna. Corremmo sotto la pioggia verso casa, sicuramente qualcuno nel palazzo avrebbe avvisato la polizia della nostra visita sul luogo del delitto.

L’indomani mattina il sole splendeva. L’acqua, per le strade, si stava ritirando lasciando non pochi rimasugli di merda in bella mostra. Mi svegliai per primo e feci una cosa che mi ero ripromesso il giorno prima: acquistare un giornale. La quadratura della nostra storia la raggiunsi leggendo tre articoli. Il primo parlava dell’omicidio del mago e del fatto che nel suo appartamento era stato trovato un nuovo cadavere. Non l’avevo ammazzato io. Aveva perso i sensi a causa del mio colpo ed era caduto a faccia in giù. Era affogato nella merda. Il cadavere era stato trovato dalla polizia accorsa sul posto, chiamata dagli inquilini che erano stati all’ertati dai rumori di due uomini in fuga. Probabilmente gli assassini, ipotizzava il giornale.

Il secondo articolo era inerente alla grande pioggia. La più copiosa precipitazione degli ultimi cinquanta anni, secondo i metereologi, che aveva causato la rottura della rete fognaria, producendo danni nelle strade e in parecchi appartamenti. Nel nostro caso, era stato determinante il fatto che il bagno fosse guasto e i rubinetti fossero stati aperti.

Il terzo articolo fu quello più interessante per noi. Era la cronaca dell’arresto al confine tra Italia e Svizzera di due rumeni. L’accusa era furto e contrabbando di beni archeologici. I due trasportavano il famigerato Occhio di Terensill, sparito dieci giorni prima dal museo di Torino.

Questo articolo ci spiegava come mai avessimo trovato nella scatola una palla da tennis. Di ottima qualità, ma di un valore di molto inferiore ai duecentocinquantamila euro. Il mago truffatore era stato truffato. I tipi della setta non si sarebbero presentati all’appuntamento, come ben sapevamo, leggevano i giornali.

Lasciai Gino a letto, la sua ferita si stava rimarginando, e andai a lavoro. Nel secondo articolo non mi era sfuggito, nell’elenco dei danni prodotti dalla pioggia, lo straripamento del pozzo nero del canile municipale. Mi feci coraggio: mi aspettava un bel po’ di merda da spalare.

Lei

Posted in LaLittératureDuMarronoir on 04/04/2011 by gfcassatella

“Ha succhiato più anime che uccelli. E di uccelli non deve averne succhiati pochi.”

Questo è quello che ho pensato, amico, quando l’ho vista la prima volta.

A tutt’oggi non credo di essere andato molto lontano dalla verità, e ti posso assicurare che di tempo ne è passato.

Vuoi da bere mentre ascolti la mia storia?

Ehi, tu! Porta un altro di quello che beve il mio amico!

Intanto finisci quello che hai nel bicchiere.

Ti dicevo, ho subito pensato quella cosa quando l’ho guardata la prima volta.

Perché ti sto raccontando ‘sta cosa?

Ah sì! Perché solo raccontandola a qualcuno questa storia diventa vera!

No no, che dici!? Non sto inventando nulla.

Vediamo un po’…

Ah, ecco! E’ come quella storia cinese-giapponese.

Oddio, orientale.

Se nessuno sente cadere l’albero si può dire che l’albero sia caduto?

Beh, per la mia storia vale lo stesso: se nessuno ascolta la mia avventura si può dire che sia accaduta realmente?

Francamente non lo so. Ma cosa cazzo mi costa raccontartela, e togliermi ogni dubbio sulla stronzata nippo-cinese-occhiomandorlata?

Tempo, ecco cosa mi costa! Tempo. Non so il tuo, ma il mio tempo non vale nulla! Quindi…

Buone queste olive!

Ti dicevo, ero seduto all’incirca dove è seduto quell’uomo. La prima cosa che vidi di lei era il suo accendino. Uno di quegli accendini di plastica della Bic. Nulla di particolare: plastica rossa con un sorriso argentato su un capo. Lo faceva roteare tra il pollice e l’indice facendo urtare prima una estremità e poi l’altra sul legno del bancone.

C’era qualcosa che non andava in quella immagine. Cercai di capirlo, tanto, detto tra noi, non avevo altro da fare. Non ci misi molto a capire cosa fosse che non andava. Era lo smalto. Aveva lo smalto rosso sulle dita. Lo stesso rosso dell’accendino. Quel rosso intenso, e corposo. Quando dico corposo voglio dire che, di per sé ha uno spessore  avvertito dai nostri sensi anche se in realtà di spesso non c’è nulla. Per farti capire rosso-autopompa-vigilidelfuoco. O… rosso-cabina-telefonica-inglese. Che c’era di strano? Nulla, se escludi il fatto che su entrambe le mani l’indice non era smaltato. Era pallido. Ricordo che mi venne in mente quella canzone di De Andrè, La guerra di Piero. Te la ricordi? Dormi sepolto in un campo di grano non è la rosa non è il tulipano che ti fan veglia all’ombra dei fossi ma son mille papaveri rossi. Bene quegl’indici erano due cadaveri in un campo di papaveri rossi. Ero ipnotizzato. Girava l’accendino. Rosso, rosso, rosso, bianco, rosso, rosso, bianco, rosso. Ero un bambino che guardava un prestidigitatore. Aspettavo.

Cosa aspettavo? Semplice, mi ero convinto non so come, che il rosso sarebbe, come dire… traslato?   Dall’accendino all’indice. Et voilà, cinque dita su cinque rosse!

Sono assurdo?

No. La vuoi sapere la cosa veramente assurda? Dentro di me ero convinto, ma sinceramente convinto, che fosse uscita da casa sua con le dita non smaltate.

Cosa? No, no. Non pensavo che poi si fosse fermata in qualche bagno di bar a smaltarsi le dita!

Ero certo che si forse fermata in tabaccheria invece!

A far che? Semplice a comprare una scatola da dieci di accendini Bic!

Detto fra noi, non so se esistano le scatole da dieci di accendini Bic. Magari esistono quelle da venti, e ne ha comprata una piena solo per metà. Magari esistono quelle da cinque, e lei ne ha comprate due. Lo sai meglio di me, questo particolare non cambia il senso della storia.

La mia mente la vedeva uscire dal tabacchino con la scatola (scatole), in una (due) di quelle buste di carta, anonime, che hanno i tabacchini. La vedeva aprire lo sportello della propria macchina. La vedeva entrare, dopo aver poggiato borsa e busta (buste) sul sedile, chiudere lo sportello e girarsi verso il sedile del passeggero per prendere borsa e busta. Era chiara nella mia testa l’immagine di lei con la borsa aperta tra le gambe che svuotava il contenuto della scatola (scatole) nella borsa. Pioggia rossa. Che dico? Grandine rossa. Mi dissi: se Dio dovesse avere le emorroidi in un giorno molto freddo, su ai piani alti, cadrebbe sulla terra grandine rossa, simile ad accendini Bic.

Vedi, nella mia testa le dita che strappavano la scatola (scatole) di cartone che conteneva (contenevano) gli accendini, e che poi infilavano il tutto nella busta (buste) di carta anonima del tabacchino, erano bianche. Ne sono certo: erano dieci dita bianche, quelle che avevano gettato la busta (buste) dei rifiuti sul sedile posteriore.

E poi? E poi era entrata in bar come questo. Si era seduta al bancone, aveva preso dalla borsa un accendino e aveva iniziato a farlo girare tra le dita, facendolo urtare aritmicamente sul legno del bancone. E dopo non so quanto tempo, e non so quanti tac sul bancone, il suo dito era diventato rosso e l’accendino bianco. Ne ero certo, il colore era passato dall’accendino a un suo dito. Aveva nove dita bianche e un dito rosso. Quale? Non lo so, ma credo non cambi molto, a questo punto.

Dopo la traslazione, con gli occhi della mente, la vedevo lasciare i soldi sul bancone e andarsene. L’ultima immagine era quella di uno sgabello, un bicchiere e delle banconote sul banco e…..

…e un obelisco nano. Ero certo che avesse lasciato il suo accendino neo-bianco sul banco. Lo vedevo là, in piedi, Ritto e perlaceo. Feci due abbinamenti mentali. Il primo fu con un disco di Eric Clapton. EC Was Here. Il titolo è una canzonatura di quelle firme lasciate nei bagni, sui monumenti o chissà dove. La necessità di fissare la carne nella parola la definisco io. Beh, lei aveva fissato la carne nella plastica. Hai presente la copertina com’è? No? Allora. C’è una donna di spalle con la scritta EC Was Here scritto con un rossetto rosso sangue. Lo stesso rosso dell’accendino. Lo stesso rosso delle sue dita. L’immagine ti lascia capire che Clapton si è scopato la donna di spalle e l’ha marchiata a sangue. Lei aveva lasciato la sua firma nel bar. Perché? Non l’ho mai capito.

Il secondo abbinamento? Lillipuziani preistorici alle prese con l’obelisco di 2001 Odissea Nello Spazio. Più che Lillipuziani immaginavo gli acari, i germi sul bancone che si domandavano cosa diavolo fosse quell’obelisco bianco e iniziavano a venerarlo, e a venerare la divinità che lo aveva posato sul tavolo.

Il calcolo dei bar in cui era stata era semplice. Otto prima del mio.

Io ero nel nono bar e la guardavo traslare l’accendino sulle sue dita, certo che se avessi aperto la sua borsa avrei trovato all’interno, tra un tampax e una gomma da masticare spezzata in due, l’ultimo dei dieci accendini Bic, identico a quelli presenti su otto banconi dei bar di questa città. Chiaramente identici se si esclude il colore. Quello nella borsa era rosso gli altri erano bianchi.

Ah, finalmente hai finito il tuo bicchiere! Ora te ne ordino un altro, in questo ormai il ghiaccio è sciolto.

Ehi tu, un altro di questi cosi al mio amico e una birra per me.

Dov’eravamo? Ah, ecco! Mentre ero perso nei miei pensieri sulle sue dita e pensavo a questo rito della traslazione, entrò nel bar un gigante. E quando dico gigante pensa all’uomo più alto e robusto che tu abbia visto. Fatto? Ora aggiungici qualche centimetro e qualche chilo, e avrai il mio uomo. Assomigliava in modo incredibile al nonno di Heidi, o al vecchio di Remì, che detto tra noi, sono sempre lo stesso attore, evidentemente specializzato nella parte del vecchio pedofilo. Hai presente i cartoni animati a cui mi riferisco, vero?

Beh, questo nonno di Heidi, in versione confezione famiglia, attirò l’attenzione di tutti. Barba e capelli bianchi davano una sensazione di gentilezza, che strideva con le dimensioni del corpo e delle mani. Aveva dei pantaloni marroni, di raso, degli scarponcini consumatissimi e una camicia a quadri. Il perfetto boscaiolo insomma.

Cazzo ci facesse un boscaiolo in un bar di ‘sta città non lo so, visto che gli ultimi alberi sono stati consumati da Noè per costruire la sua arca-antisingle.

Però lui era un boscaiolo, ne sono certo. Nel suo caso l’abito faceva il monaco. Un monaco con le bretelle. E se c’è una cosa che ho imparato guardando le trasmissioni di politica in tv è di non fidarsi dei panzoni con le bretelle, specie se le bretelle sono rosse.

Tant’è che quando era entrato il locale s’era zittito. Probabilmente sono stato l’ultimo a vederlo entrare. Il perché lo puoi capire da solo. Io guardavo solo le mani di lei. E furono proprio loro ad avvisarmi dell’arrivo di Nonnopedofilolecaprettetifannociao. Infatti, per la prima volta da quando l’avevo vista, le sue dita non facevano girare l’accendino. Erano immobili. Quello che percepii inizialmente fu l’assenza di tempo. Le sue dita erano lancette. Se erano ferme il tempo si era fermato e il silenzio sceso in sala non faceva altro che acuire questa mia sensazione.

Chiaramente fu una sensazione sbagliata. Le persone ripresero a parlare appena superato lo shock da gigante. Anche perché, se di gigante si trattava, con quella faccia non poteva che essere un gigante gentile, con le tasche piene di caramelle.

A me però non la fece. Ormai hai capito che tipo sono. Sono uno a cui non la si fa facilmente e quelle sue bretelle rosse mi gridavano “pericolo in sala”.

I fatti mi avrebbero dato ragione di lì a poco.

Ti dispiace se vado a dare un po’ di soddisfazione alla prostata? No, vero? Beh, bevi alla mia salute, e pensa a qualche domanda da fare al mio ritorno. Magari le tue domande daranno qualche risposta anche a me.

Eccomi! Mi ci voleva proprio! Vedo che ti sei dato da fare con quel bicchiere. Stavolta il ghiaccio non ha avuto tempo di sciogliersi. Mi fa piacere.

Ehi, tu ormai sai cosa prende il mio taciturno amico. Beh, fagliene uno doppio.

Hai domande o vado avanti?

Sì sì, è vero, non te l’ho descritta fisicamente, se escludi le dita. Ma sai perché? Perché in realtà non so come fosse fatta fisicamente. Certo, certo l’ho guardata. Vediamo un po’ se così riesco a esprimere ciò che ho visto,perché non sono in grado di descriverla. Hai presente quando i tuoi occhi vengono abbagliati? Beh, a me è successo questo: sono stato abbagliato quando l’ho vista, e ho pensato a quella storia degli uccelli. Dopo ogni abbaglio che si rispetti i tuoi occhi vedono solo puntini. Io ricordo solo quei puntini, e più stringo le palpebre e più sono nitidi i puntini. Ci sei arrivato amico: i puntini sono le sue dita. Io ho perso la visione globale, non so come fosse fatta, ma ricordo le sue dita. Né più né meno di otto dita rosse e due bianche.

Nonno, senza esitazione, si diresse verso di lei. La mano di lei si aprì e lascio cadere l’accendino sul banco. Il rumore dell’impatto, per quanto soffuso, fu di una tonalità molta alta. Un pianto. Giuro, l’accendino aveva pianto.

Il boscaiolo si frappose fra me e lei. Non la vedevo più. Vedevo solo le grandi spalle del vecchio. Le sue braccia facevano capire che gesticolava in modo concitato. Sarà stato per la dimensione delle spalle, per la larghezza della schiena e soprattutto per la camicia che ricordava una tovaglia, ma a me pareva di osservare un tavolo da osteria, posto in perpendicolare al pavimento, al quale non si sa come, fossero spuntati due tentacoli da calamaro gigante. Quei tentacoli avrebbero potuto distruggere un qualsiasi Nautilus con tanti saluti al capitano Nemo e al suo turbante.

Distolsi lo sguardo dai due conversanti. Due? In realtà dovrei dire uno, visto che lei ormai era sparita dalla mia visuale. Distolsi lo sguardo per osservare le reazioni degli altri avventori. Nulla. Nessuno guardava. Sai qual è la verità? Che una volta superato uno shock ci si abitua a tutto. Il cervello umano è come una lingua. Ti è capitato che ti si rompesse un dente? Si. Allora saprai come la lingua in un primo momento tende ad andare sul dente rotto. Legge qualcosa di diverso nella tua bocca e ti avvisa. Ma poi la lingua si abitua a quel cambiamento, sino a considerare quella situazione normale. Quando poi vai a rifarti il dente, la lingua sente il nuovo dente e ti avvisa della diversità. Ma puoi starne certo, prima o poi dimenticherà anche quel cambiamento. Il cervello umano funziona nello stesso modo. Non importava che il gigante che fino a pochi secondi prima era stato l’attrazione principale del locale ora gesticolasse in modo minaccioso dinnanzi a una donna. Aveva  smesso di essere diversità. E stanne certo, ai diversi non si perdona nulla, ma con gli uguali non ci si pone nemmeno il problema, se stiano sbagliando o meno. Lo so, è contorto come ragionamento.

Comunque, nessuno aveva notato la concitata conversazione, così come nessuno aveva notato il fatto che il Nonno avesse preso la piccola Heidi-dita-bicolore per mano e la stesse trascinando, strattonandola, fuori dal locale. Nella concitazione lei aveva lasciato sul bancone il suo accendino Bic, quello con cui giocherellava.

Mi guardai alle spalle, per sincerarmi che il boscaiolo non mi stesse guardando, e mi allungai sul bancone per raccattare l’accendino. Non so cosa mi aspettassi, ma la normalità al tatto mi deluse un po’, devo ammetterlo. Nonostante tutto lo infilai in tasca.

Mentre lo nascondevo in tasca ebbi un’altra idea. Sullo sgabello accanto a quello su cui lei era seduta era rimasta la sua borsetta. Molte domande nella vita restano senza risposte, e questa storia è ricca di domande senza risposte. Ma là, davanti a me, avevo una risposta. Potevo controllare se nella borsa ci fosse un accendino Bic rosso. Il decimo.

Scesi dallo sgabello, mi guardai intorno. Nessuno faceva caso a me, ero un dente vecchio. Mi avvicinai alla borsa, l’aprii. Era vuota, se si escludeva un mazzo di chiavi e un accendino Bic rosso. Infilai la mano, mentre con gli occhi della mente cercavo di focalizzare il punto in cui avevo visto l’accendino. Con il senno di poi, è una stronzata, visto che non era la borsa di Eta Beta, ma una semplice borsa semivuota. Lo trovai senza difficoltà, infatti, e anche questo sparì nelle mie tasche.

Come un drogato che ha avuto la sua dose, mi resi conto che per andare dietro agli accendini avevo perso di vista il gigante e la bambina! Se volevo le vere risposte dovevo corrergli dietro. Necessariamente. Presi il portafogli, estrassi una banconota sufficiente a estinguere il debito pubblico di un paese africano, per buona pace di Bono, la posai sul bancone e mi avvicinai alla porta.

Stavo per aprirla quando decisi di mettere in tasca un coltello che era poggiato su uno dei tavoli, ormai vuoti, vicini all’uscita. Qualcuno aveva cenato, ma nessuno era passato a sparecchiare, e io, da uomo prudente, scelsi di dare una mano al cameriere.

Esatto! Bravo! Hai capito come funziona il mondo. Nessuno mi vide mettere il coltello in tasca perché ero un dente vecchio.

Aprii la porta e mi ritrovai per strada.

Era una serata calda. Il contatto con l’aria non produsse in me alcun effetto. Iniziai a guardarmi intorno per cercare i due, ma non riuscii  a vederli. Decisi di controllare le stradine perpendicolari alla strada del bar. Provai a muovermi, ma qualcosa mi teneva legato al suolo. Avevo schiacciato una gomma da masticare. Alzai il piede e vidi la gomma che pian piano si assottigliava. Prima un filo unico e spesso, poi più fili, sempre meno spessi. Braccia di affamati levate al cielo in cerca di aiuto. Riuscii a eliminarne gran parte grattando la scarpa sul marciapiede e iniziai a guardare nei vicoli. Avevo un passo sostenuto. I residui della gomma si attaccavano al suolo ogni volta che appoggiavo il mio piede sinistro. Era un tac ritmico, non sonoro, ma fisico.

Finalmente li scorsi in una stradina. Lui era in piedi e la trascinava per i capelli. Era il più grosso Linus che avessi mai visto e lei era la più strana coperta che Linus avesse mai avuto. Per completare l’immagine mancava solo il dito in bocca, ma lui non era Linus, e non si ciucciò mai il ditone.

Decisi di seguirli. Mi appartavo nei portoni e dietro i bidoni della spazzatura, per non farmi vedere, non osavo immaginare cosa avrebbe potuto farmi con tutti quei muscoli, se mi avesse preso.

Finalmente si fermò. Prese la sua coperta e la mise seduta, con le spalle al muro e il culo a terra. Lei non fiatava. Le sue gambe erano piegate e le rotule si toccavano. Era una strana V capovolta. Una grotta scura che lasciava immaginare tesori, ma che per il momento offriva solo oscurità. Aveva un braccio che pendeva sino ad arrivare a terra e il  dorso della mano poggiato sulla strada sporca. L’altro era dietro la schiena, piegato alla maniera degli schermitori. Hai presente?

Ma sai cosa notai veramente mentre la guardavo? Notai che non l’avevo mai sentita parlare, e me ne resi conto solo in quel momento. E’ strano, no? Ho dovuto usare la vista per fare contestualizzare al cervello che avevo usato poco l’udito, anzi, per nulla. E quale fu la reazione del mio cervello? Chiaro, cercò di ascoltare meglio. Avviene sempre così, è come per il figliol prodigo: se un figlio sta là a farsi il mazzo (vista) ma torna il figlio fancazzista (udito), il papà (cervello), invece di fare un culo così al fancazzista concentra su di lui tutte le attenzioni. Io cercai di sforzare l’udito. Ma se uno è fancazzista, rimane fancazzista sempre, e così dovetti tornare dal buon figliolo vista. Cosa vidi? Vidi che lo sguardo di lei era spento. Cosa fosse successo nei minuti trascorsi tra la loro uscita dal bar e il momento in cui li ho raggiunti non te lo so dire. Posso solo dirti che ho visto bambole gonfiabili con sguardi più vivi.

Mi posizionai dietro un bidone della spazzatura. Ti ho già detto che era una serata calda, e calore e pattume non stanno bene insieme. L’aria era irrespirabile. Ma meglio respirare aria irrespirabile, che farmi vedere e non respirare più, no?

Acquattato, lo vidi armeggiare con la zip dei pantaloni. Aveva le mani pelose. I peli erano bianchi e grigi, e sembravano tanti batuffoli di polvere attaccati alla rinfusa su due grosse fette di pane. Mentre con la mano sinistra manteneva aperta la patta, infilò la destra nei pantaloni. Non riuscivo a vedere cosa stesse facendo, ma non era difficile immaginare che stesse abbassando lo slip o aprendo lo spacco dei boxer. Sta di fatto che se avesse estratto un coniglio con tre teste sarei rimasto meno sorpreso di quanto avvenne effettivamente. Tirò fuori il cazzo. Era enorme. Non so chi vada dicendo che i nani sono superdotati, ma anche i giganti non scherzano. Probabilmente chi ha messo in giro la voce sui nani avrebbe potuto candidamente dirmi: “quello è un nano, un nano di gigante, quindi nulla di strano che sia dotato”. Mi avrebbe fregato con una frase così, cosa avrei potuto rispondere? Te lo dico io cosa, nulla.

Pensai “ora la violenta”, e se la violenta con quel coso è omicidio, altro che stupro! Non la violentò. Allargò semplicemente le gambe davanti a lei, prese il suo coso con entrambe le mani e iniziò a pisciarle addosso. Hai presente quei film sui galeotti in cui si vedono i poliziotti che sparano acqua con gli idranti sui  malcapitati mascalzoni? Beh, quel cazzo era un idrante. Dalla mia postazione riuscivo a percepire la potenza del getto. Lei rimaneva ferma e zitta.

Cosa? Dovevo intervenire? Non ci pensai nemmeno! Paura? No, no. È che in quel momento non ci pensavo proprio a intervenire, non pensavo al mio cellulare e né, tanto meno, al coltello che avevo con me.

La verità è che ero eccitato. Non sono un guardone. Odio la violenza. Ma quell’atto di sottomissione mi stava eccitando. Mi vergogno a dirlo, e che siano cose che non si dicono lo so. Oddio non andrebbero neanche fatte, ma almeno se le si fa bisognerebbe non dirle, almeno questo è quello che ho capito andando in chiesa. Ma io ti racconto tutto perché ho deciso di far sentire al mondo che l’albero è caduto.

Misi la mano in tasca per potermi toccare. Non avevo intenzione di tirare fuori il mio uccello per due motivi: primo mi vergognavo a tenerlo fuori per strada; secondo come potevo considerare ancora il mio un cazzo dopo che avevo visto la proboscide di Linus?

Iniziai ad armeggiare e nella tasca destra trovai i due accendini. Strano. Fino a qualche minuto prima gli accendini erano stati al centro dei miei pensieri, ma da quando ero uscito in strada li avevo completamente scordati.

Iniziai a sfregarmeli sul pene. Era doloroso nonostante tra il cazzo e gli accendini ci fosse sia il tessuto della tasca sia quello degli slip. Più tardi, a casa, avrei trovato il mio uccello tutto graffiato e le mutande sporche di sangue. In quel momento, però, non sentivo dolore. A te che non sei donna posso dirlo, sono venuto in un niente. Io sono uno di quelli che dura, e tanto, anzi se hai un’amica consigliami pure senza problemi. Ma quella notte fui primatista mondiale di getto in mutanda, credo di aver stracciato ogni record.

Il vecchio smise di pisciare, rimise l’arnese nei pantaloni. Rimase là a guardare la sua opera. Dava l’impressione di un pittore intento a guardare la sua creazione, uno di quelli che usano l’aerografo mentre hanno un attacco di Parkinson, o che buttano a cazzo vasi di vernice sulla tela. Ogni artista firma la sua opera. Lui non fu da meno. Infilò la mano destra nel taschino della camicia, più o meno all’altezza del cuore, e tirò fuori una gomma. Una di quelle gomme da masticare lunghe. Tolse il primo strato di carta, semplicemente sfilando la gomma da dentro, e rimase con una barretta argentata in mano. Stava per gettare la carta che aveva fatto da involucro esterno per terra, poi ci ripensò e se la infilò nella tasca destra dei pantaloni. Hai capito il controsenso? Non aveva avuto problemi a pisciare su una donna, ma non se la sentiva di buttare la carta per terra! Ma in che mondo viviamo? Comunque, era rimasto con questa barretta argentata sottile sottile  nelle mani. Ora ti lascio immaginare quale sia la difficoltà per uno che ha cinque wurstel da hot dog al posto delle dita, nello scartare una gomma da masticare. I salsicciotti si muovevano in modo convulso. Per la prima volta lo vidi nervoso. E capii una cosa: se le ditte di alimentari si sono messe a  produrre mono porzioni per i single, io avrei aperto un alimentari per giganti. Maxi porzioni di tutto, per maxi mani. Certo di giganti in giro non ce ne sono tanti, ma perché fare incazzare quei pochi che ci sono, quando basta fare prodotti giganti? Non è bello vedere un gigante incazzato, te lo assicuro.

Finalmente liberò la gomma dalla carta argentata. Uscì la lingua dalla bocca, vi appoggiò su la gomma e ritirò la lingua dentro. Appallottolò la stagnola e la mise nella tasca della prima carta, questa volta senza alcuna esitazione. Masticò ritmicamente, mentre il sudore che era spuntato per il nervosismo, durante l’operazione di scarto, si andava asciugando. A un certo punto, spalancò la bocca cacciò fuori la lingua, ricordando un lettore DVD, e raccolse la gomma, appallottolandola tra le dita. Poi si piegò sulla donna e gliela appiccicò in fronte. Ebbe chiaramente delle difficoltà. La fronte era bagnata di piscio, anzi era inzuppata, e la gomma non riusciva a stare attaccata. La gomma, tra l’altro, era di uno strano colore arancione. Sembrava un uomo che si ostinasse a tenere premuto il bottone di un ascensore, illuminato per indicare che il piano era già stato prenotato. Staccò finalmente il dito. Strofinò la mano sui pantaloni, e senza guardare la sua opera, ormai firmata, iniziò a camminare verso di me. No, no meglio dire verso il punto in cui mi trovavo, pensai immediatamente che mi aveva visto. Quel bastardo aveva fatto il suo spettacolino per me e ora veniva a riscuotere il prezzo del biglietto. Mi feci piccolo piccolo, e quando dico piccolo piccolo, penso sempre al mio e al suo cazzo. Si fermò davanti al bidone, alzò una gamba, ma non mi scalciò, pigiò semplicemente il meccanismo che aziona l’apertura del coperchio e vi gettò la sue dannate cartacce. Come abbia fatto a non vedermi è un mistero, uno dei tanti di quella sera, ma posso assicurarti che non poteva non vedermi così come tu non puoi non vedermi in questo momento. Ma non mi aveva visto, ero stato fortunato.

Attendemmo qualche minuto dietro il bidone. Eravamo io, la mia solitudine, le mie mutande impiastricciate e la Donna-cesso.

Dall’inizio della scena, e intendo dal momento in cui vidi il gigantesco Linus con la Donna-coperta, al momento in cui decisi di uscire dal mio nascondiglio, saranno passati all’incirca una quarantina di minuti. In quei maledetti quaranta minuti non passò anima viva. Se fosse passato qualcuno avrei negato di aver visto ciò che avevo visto. Avrei semplicemente detto che passavo di là, avevo visto la donna a terra e mi ero precipitato a soccorrerla. Non pensavo lei potesse vedermi sbucare dal mio nascondiglio, e poi, francamente, sembrava così scioccata che non si sarebbe resa conto della mia presenza neanche se fossi stato al fianco di Nonno Gigante, per tutto il tempo della sua pisciata.

Infatti, andò tutto come mi ero immaginato. M’incamminai accompagnato dal fastidioso tic tac della gomma, attaccata sotto la scarpa. Mi fermai di fronte a lei. Gli occhi la vedevano da molto tempo, quindi sapevo che aspettarmi visivamente. Ma il mio olfatto era ignorante. In quel momento il naso capì che fino a quel momento era stato un privilegiato poter annusare gli odori che provenivano dal bidone dietro al quale mi ero nascosto. L’olezzo che proveniva dalla donna era insopportabile. Dio mio, io ne ho fatte di pisciate. Le ho fatte dopo malattie o dopo aver mangiato le cose più strane. Quindi sapevo come può puzzare la pipì. Ma non potevo aspettarmi una puzza del genere. Credo che se fosse possibile sentire gli odori in televisione, secondo te sarà mai possibile?, un documentario sugli ippopotami avrebbe sta puzza.

Perché proprio ippopotami?

Perché lei era in una pozza di pipì. La più grande pozza di pipì che avessi mai visto. Sembrava vi avesse pisciato dentro una squadra di calcio, dirigenti inclusi. Beh, chiaramente Inter a parte, se pisciassero quelli dell’Inter ci metterebbe più tempo la pozza a evaporare che l’Inter a rivincere uno scudetto. Ma lo rivinceremo mai uno scudetto?

Quindi, ti dicevo, la pozza di pipì sembrava proprio una di quelle pozze che piacciono tanto agli ippopotami, anche perché il colore della pipì non era tendente al giallo, ma era più simile al marrone. L’odore di ammoniaca era fortissimo. Quell’uomo era un bottiglione di ammoniaca concentrata, avrebbe fatto la gioia di ogni nonnina della pubblicità. “Figlia mia da quando uso Nonnogigante ho risolto tutti i miei problemi di sporcizia! Ammoniaca superconcentrata Nonnogigante, ora anche in confezione superultramaxi.” E poi strizzando l’occhio, avrebbe detto: “E non solo i problemi di sporcizia ho risolto”.

Fortunatamente porto con me sempre un fazzoletto in tasca, me lo posai sul naso. Mi abbassai e mi arrotolai i pantaloni, perché io vivo solo, non ho mogliettina che mi lava i pantaloni e non potevo certo rischiare, tu mi capisci vero? Mi piegai su di lei. Il trucco le formava dei rigagnoli sul viso. I rigagnoli avevano colori diversi, a seconda del cosmetico utilizzato, ma tutti tendevano al marrone, lo stesso marrone della pozza. Le sue vesti erano zuppe di pipì, era in uno stato pietoso. Finalmente mi decisi ad aiutarla, ma con una mano occupata dal fazzoletto potevo fare ben poco, decisi di legarmi il fazzoletto sul viso. Ero il più ridicolo bandito da far west che ‘sta palla di fango e merda, che è la terra, avesse mai visto. Tesi le braccia per sollevarla, ma mi bloccai. Vidi la sua mano, quella poggiata sul ventre. Vidi soprattutto l’unico dito non ancora smaltato di quella mano. Di istinto le spostai l’altra mano, quella poggiata sulla strada, e la posizionai anche essa sulla pancia. Mi rialzai, feci un passo indietro, e la guardai. Le sue due dita bianche mi attiravano. Ero ammaliato. Credo che i navigatori che giungevano ad Alessandria, vedendo da lontano il grande faro dopo giorni di navigazione, provassero la stessa magnetica attrazione che provavo io in quel momento.

Desideravo quelle due dita. Non potevo non farle mie.

Ricordai che avevo con me il coltello rubato al bar e decisi di usarlo. Tu ora ti aspetti che ti dica una frase del tipo: “Ero fuori di me, non pensavo ai rischi che correvo. Sapevo solo che volevo le sue dita”. Nulla di più falso. Ero in me e ponderai i rischi. Erano due: il primo era dato dalla possibilità che passasse qualcuno; il secondo dal fatto che la donna potesse riprendersi da un momento all’altro e iniziare a gridare, per lo spavento o per il dolore.

Mi dissi: “Sei da più di un ora in questa strada e non è passato nessuno, è notte inoltrata, quante possibilità ci sono che passi qualcuno?”. “Basse” mi risposi.

Il secondo problema lo risolsi in modo più spiccio. Sferrai un calcio tra le costole della donna, per vedere se il dolore l’avrebbe fatta rinvenire. Ma la donna non rinvenne. Per qualche secondo mi soffermai a riflettere su cosa poteva averle fatto il vecchio in quei pochi minuti che li avevo persi di vista per ridurla così. Non l’ho mai scoperto, e forse questo è stato un bene.

Non potevo rimanere a novanta gradi per compiere quella operazione. Fui costretto ad inginocchiarmi, e la cosa non mi entusiasmò. Piegai un ginocchio e lo poggiai sulla strada. Il contatto con la pipì fu tremendo. Inizialmente non provai nulla, ma poi sentii calore. Era passata un’infinità di tempo da quando lui aveva fatto la pipì, ma il liquido era ancora caldo. Da non crederci! Avendo arrotolato il pantalone, il mio stinco era coperto solo dal calzino. Ben misera protezione.

Presi la sua mano destra, la poggiai sul ginocchio piegato, appoggiai la lama sul suo dito. Mi resi conto che se avessi tagliato il dito in quel modo mi sarei sporcato il pantalone di sangue, mi fermai. Diedi un’ occhiata in giro e ringraziai la dea della sporcizia, se mai ne esiste una. Tra il mio ex nascondiglio e il punto in cui mi trovavo c’era un grosso barattolo di vernice, alto all’incirca come uno sgabello. Era l’ideale. Sollevai il ginocchio dalla pozza e m’incamminai verso il barattolo. Tra il tac della gomma e la sensazione di pipì che scivolava sullo stinco ti posso assicurare che il viaggio di andata e ritorno non fu cosa piacevole, ma andava fatto, non potevo sporcarmi i pantaloni.

Posai  il bidone alla sua destra, vi appoggiai la mano, avvicinai la lama al dito e iniziai a tagliare. Inizialmente non accadde nulla, poi una striscia rossa apparve. Sentivo la carne che si lacerava pian piano. Si apriva, ma nel contempo piccoli brandelli rimanevano attaccati alle puntine della lama, per staccarsi all’istante. Io percepivo questo attaccarsi e staccarsi. Il sangue che ne sgorgò era una languida carezza che colava verso la pipì, sotto forma di lacrime di alba. Rabbrividii, nel vedere due liquidi, uno nobile ed uno vile, generati dal nostro corpo miscelarsi sull’asfalto, per formare un qualcosa di nuovo. Ero un alchimista in attesa che quel brodo producesse la pietra filosofale. Non accadde, in compenso ripensai ad una intervista a Lars Ulrich. Sai chi è? E’ il batterista dei Metallica. Un giorno Lars spiegò a un giornalista che il titolo della copertina di un loro disco, Load, era “sangue ed urina”. In effetti una certa somiglianza tra quella copertina e quello che vedevo c’era. Ah, detto tra noi, se ti viene la curiosità di vedere quella copertina, non farti venire anche quella di ascoltare l’album, è imbarazzante!

Comunque continuai a segare ed arrivai all’osso. L’osso, se mi permetti il gioco di parole, fu “un osso duro”. Riuscii a scalfirlo, riuscii a segare un po’, ma tu capisci bene, non sono un macellaio e quello era un coltello da cucina, non una mannaia. Il sangue mi schizzava addosso e la puzza di ammoniaca, nonostante il fazzoletto, iniziava a farmi girare la testa. Decisi di passare alle maniere forti. Visto che la lama era entrata parzialmente nell’osso e che quindi riusciva a stare diritta senza che la tenessi, mi alzai e calai con violenza il tacco delle mie scarpe sulla lama e feci saltare via il dito. Avevo inventato la ghigliottina da piede!

Il moncherino finì nel lago di sangue e urina e dovetti piegarmi a cercarlo. Lo raccolsi, mi tolsi il fazzoletto dal naso e ce  lo misi dentro.

Ormai ero certo di due cose: la prima, che lei non si sarebbe svegliata più quella notte; la seconda, che fazzoletto o non fazzoletto la puzza di ammoniaca mi stava facendo ammattire e che quindi il fazzoletto poteva essere utilizzato in modo più utile.

Avevo sentito, ma credo lo abbia sentito anche tu, che in caso di ferite da medusa il primo rimedio è quello di farci sopra la pipì. Sulla base di questa informazione presi la sua mano amputata e la immersi nella pipì, per disinfettare la parte della mano che sanguinava. Sincerante non so dirti se fu una cosa intelligente o meno, ma non me la sentivo di lasciarla con una ferita aperta senza disinfettarla.

Avendo già tagliato un dito, il secondo mi diede meno difficoltà.

Usai la stessa tecnica sega più ghigliottina da piede.

Avevo finalmente i miei due moncherini, anche se di diversa lunghezza. Potevo andarmene, e lo feci. Ero ridotto a uno schifo.

Mentre mi allontanavo sentii l’istinto di girarmi. La vidi là, accartocciata e piena di ammaccature. Capii che non potevo lasciarla così. Tornai indietro, raccolsi la lattina di birra che aveva attirato la mia attenzione e la gettai nel bidone che era stato il mio rifugio. Ho sempre odiato le lattine per strada, potrebbe passare un bambino e ci si potrebbe tagliare.

Corsi subito in macchina e guidai a rotta di collo verso casa. Presi un contenitore in stagnola per alimenti e vi ci riposi i due moncherini, dopo averci versato sopra del succo di limone. Presi il contenitore e lo riposi nel freezer. L’indomani mattina cercai su giornali eventuali notizie inerenti alla donna, ma non c’era scritto nulla. Idem alla televisione. Non ti nascondo che tirai un sospiro di sollievo. Ogni tanto mi capita di ripensarci, come stasera, ma per la maggior parte del tempo cerco di non farlo. Non ne sono fiero.

Tutto qui. Non so perché ti abbia raccontato tutto. Mi andava di farlo.

No, non ho paura che mi denunci. Sai perché? Perché  ciò che non appare nei tg della sera non è mai accaduto, e non puoi denunciarmi per un una cosa mai accaduta. Certo potresti portare la polizia a casa mia, ma le prove le ho distrutte da tempo, e i due moncherini sono solo un ricordo.

Dai andiamo a fare una passeggiata, magari ti fai una fumata. Non ho sigarette da offrirti. Non fumo. Ma se vuoi fumare… ho da accendere.

Mi son fatto il Blog

Posted in LeBlàBlàDuMarronoir on 31/03/2011 by gfcassatella

Ho sempre pensato che avere un blog fosse una manifestazione di presunzione. Un tipo, un giorno, si alza e dice: “il mondo ha la necessità di sapere quello che penso su ogni cosa”.

E allora voi direte: “perché ti sei fatto il blog?”.

Per tutta una serie di ragioni:

1) Perché myspace è impazzito nel suo tentativo di assomigliare sempre più a FaceBook. Myspace era uno strumento meraviglioso di diffusione delle arti: permetteva alla tua musica, ai tuoi racconti, ai tuoi quadri di raggiungere ogni angolo del modo. Ora non più. Il successo di FaceBook, dovuto a una maggiore facilità di utilizzo, ha fatto si che quella meravigliosa piattaforma diventasse un incubo. Mi spiego meglio: è come se Rubia facesse di tutto per assomigliare ad Alvaro Vitali per diventare più popolare (sono certo che se lo scienziato e l’attore camminassero insieme per strada, quello riconosciuto dai più sarebbe l’attore).  All’indomani del mio ultimo accesso sul mio profilo myspace, conclusosi con l’incapacità di postare il mio nuovo racconto, ho preso la decisione di farmi il blog. Nella sezione LaLittératureDuMarronoir troverete i miei racconti (nuovi e vecchi). Mi piacerebbe inoltre ospitare altri autori (chissà magari un giorno pubblicare un E-book).

2) Credo che la mia collaborazione con rawandwild.com sia alla frutta. In questi anni ho dato tanto (anche troppo), mettendo da parte la scrittura. La mia esperienza con R&W è il tipico caso di sogno che si trasforma in incubo. Sono stanco di recensire (a ritmi estenuanti) musica che mi viene proposta dagli altri. Vorrei tornare a scegliermi da solo cosa ascoltare e chi intervistare. Per questo motivo, se sarà possibile, continuerò come free-lance per R&W  e qui mi dedicherò, nella sezione LaMusiqueDuMarronoir, a scrivere di ciò che voglio.

3) Giusto per non farmi mancare nulla, ecco la sezione LeCinémaDuMarronoir, nella quale parlerò delle cineschifezze che a me piacciono tanto.

4) Dato che sono un presuntuoso, un giorno mi son detto: “il mondo ha la necessità di sapere quello che penso su ogni cosa”. Forse non dirò tutto tutto, però quando avrò voglia di dire qualcosa, potrò liberamente andare nella sezione LeBlàBlàDuMarronoir.

Qualcuno di voi mi potrebbe far notare che: “tutto questo potevi farlo su FaceBook”. Sì e no. Anzi no! C’ho provato, ma la soluzione migliore è la nota, il che comporta che sia io a taggare gli altri e a dire: “su’, da bravo, da’ un’occhiata”. Non è il mio stile. Il blog è sì lanciare un messaggio nella speranza che questo venga ascoltato, però non è come una nota. In termini matematici potrei riassumere il tutto con la seguente equivalenza: notaFB:telefono=blog:messaggio_nella_bottiglia. In soldoni, se volete leggere le mie cavolate, sapete dove trovarle (se  siete masochisti potete iscrivervi al servizio LaNewsletterDuMarronoir). Poi su FaceBook ci sono solo gli amici(più o meno), con il blog potenzialmente posso raggiungere altri lettori.

In conclusione, mi va di spiegare il nome LaMaisonDuMarronoir. Il tutto è nato qualche hanno fa, quando mi venne voglia di scrivere un racconto noir. Il risultato fu “Non tutta la merda viene per nuocere”. Racconto sì noir, ma con tanto marrone dentro (sin dal titolo). Di lì a unire in un (geniale) gioco di parole i due colori non fu complicato. Il nome LaMaisonDuMArronoir nacque subito dopo, ma non ricordo quando e come. Però da un certo punto in poi è diventata la mia finta casa editrice (se lo scrittore è finto…).

Benvenuti ne LaMaisonDuMarronir, e ricordate di pulirvi le scarpe prima di tornare per strada.