Nostro Signore Il Vuoto Onnipotente

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In ogni caso, avevamo fame. Anzi, per l’esattezza, ci sembrava di aver inghiottito il vuoto cosmico, quella era la sensazione. All’inizio era un vuoto piccolo […] ma col passare dei giorni andava espandendosi all’interno del nostro corpo e prendeva le dimensioni di un abisso senza fondo. (Haruki Murakami)

Perché eravamo affamati? Perché eravamo isolati. Di quell’isolamento generato dall’attesa, che ti coccola, ti sballotta, ti affatica, ti sfianca. Ti rende meno umano.
Furono giorni strani, giorni di fame. Di cibo ne avevamo, ci mancava altro. Vuoto cosmico, come l’ho chiamato prima, visto da qua, oggi, non appare una definizione esagerata. Eppure avevamo tutto, tutto quello che può servire in una casa. Noi dentro con il nostro tutto, dentro di  noi mancava tutto. E fuori, fuori nel mondo? Non ci interessava. Solo quella vecchia corriera, che passava due volte al giorno davanti alla nostra finestra, attirava la nostra attenzione.  Forse perché ci ricordava la nostra infanzia, quando la fame era ancora lontana. Quando avevamo altro a cui pensare.
Ogni giorno le stesse azioni, perché l’attesa è ripetizione. Dormivamo, mangiavamo, ogni tanto mettevamo qualche disco. E scopavamo. Scopavamo, perché l’amore l’avevamo barattato con la speranza. Anche quello era diventato un gesto meccanico, da compiere ogni qual volta le batterie erano cariche. Forse per questo giravamo nudi per casa. Non completamente nudi, ricordo che indossavamo solo i calzini. Entrambi lo facevamo, chissà perché, forse per evitare di dover infilare le scarpe.  A che servono le scarpe se non hai nessun posto dove andare?
Un tempo giravamo, anche parecchio. Eravamo curiosi. Così curiosi, che dovevamo dividere in due il fardello degli interessi. Ma due non bastavano più a un certo punto. Eravamo pochi. Accumulavamo. Dividevamo. Qualcosa avanzava sempre. Prima poco. Poi tanto. E quel tanto veniva da fuori, passava dentro di noi, arpionava le nostre carni, la nostra anima, la nostra coscienza, e spuntava fuori dall’altro lato. E lo mettevamo là. Lo impilavamo in un angolo. Ma l’angolo diventò una parete. La parte diventò una stanza. La stanza diventò una casa. La nostra.
A noialtri andò così, tutto quello che spurgavamo,  portava via un pezzo di noi. Ogni pezzo che andava via, accresceva il buco. Il buco aveva fame. Avevamo fame, perché il vuoto eravamo noi. Noi due, il nostro mondo e lo schifo senza nome che avevamo accumulato in casa.
Una semplice domanda, fatta non ricordo neanche da chi dei due, diede inizio all’isolamento. Perché prima che uno dei due ponesse quel quesito, la speranza non c’era. E se c’era, dormiva. Poi all’improvviso spuntò fuori. E come il più abile dei carpentieri, iniziò a tirar su le sue pareti. Sempre più spesse.
Ogni colpo d’anca un mattone. Ogni gemito una colata di cemento. Secondi, minuti, ore, giorni. Corriera, corriera.
Il mondo immobile, noi a recitare le nostre parti. Le coscienze sempre più sporche di delusione. Il fallimento pian piano che delineava i propri contorni, sempre più simili alle nostre sagome. La meccanica si inceppava sempre più spesso, così le parole prendevano il posto degli atti. Ogni tanto ci fermavamo, restavamo lì a guardarci, muti. Non ci riconoscevamo più in quei corpi sempre più smunti. Strizzati dagli eventi, dondolavamo avanti e dietro, quasi a nasconderci. Ci evitavamo, nonostante giocassimo a rincorrerci. La speranza aveva cambiato abito, era diventata senso di responsabilità. Quasi che lo dovessimo al Nostro Signore Il Vuoto Onnipotente. Facevamo quello che dovevamo fare perché dovevamo farlo. Così, tutto di un fiato, con quel fiato che ancora ci era rimasto. E ce ne era rimasto sempre meno. Perché l’aria si stava esaurendo in quella casa. A ogni passaggio di corriere era sempre meno. Il tempo ci stava prosciugando, ingialliva la nostra volontà, la essiccava. Piano piano, anche il senso del dovere evaporò. Rimanemmo così nudi, tranne che per i calzini. Togliemmo anche quelli. Avevamo bisogno di lordarci, di riprendere possesso del mondo. Un passo per volta, ci allontanammo. La porta ogni giorno era sempre più vicina, poi diventò sempre più lontana, alle nostre spalle.
Noi che eravamo rimasti schiavi dell’ideale del futuro, vi rinunciammo. Il per sempre spiegò le sue vele seguendo altri venti. Lo schifo lo lasciammo dietro di noi. Eravamo delle lumache spurgate, pronte ad essere cucinate altrove.
Oggi non abbiamo più fame, almeno non quella fame. Ognuno sulla propria strada cammina seguendo i propri mattoni gialli, stando attenti a non sporcare anche le nuove scarpette, per preservarne il rosso accesso. Qualche volta ci incrociamo, facciamo finta di nulla, rimaniamo in silenzio, un silenzio però diverso da quello di quei giorni, e tiriamo avanti. Perché alla fine lo sappiamo entrambi, che se mai dovessimo riavvicinarci, Nostro Signore Il Vuoto Onnipotente reclamerebbe la sua parte. Così vaghiamo, corriere contromano, risospinti senza sosta nel passato.

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Non scrivevo da un paio d’anni, avrei dovuto continuare a non farlo.
Questo racconto è nato per caso, ho trovato un concorso che mi piaceva e mi son detto “quasi quasi”.
Mi intrigava l’idea di partire dall’incipit di qualcun altro, scelto da una rosa indicata nel bando (io ho optato per Murakami), per sviluppare la trama.
È venuta fuori questa cosa, una sorta di Ultimo Tango a Parigi in salsa baconiana.
Dato che non mi bastava sfruttare l’incipit di qualcuno molto più bravo di me, mi sono prefissato di terminare la storia parafrasando la chiusura  di un’opera qualsiasi di Francis Scott Fitzgerald, ho scelto “Il Grande Gatsby” (il più bel romanzo che sia stato mai scritto sui social media).
Il concorso è andato malissimo: su 152 ne hanno scelti 27 (non due o tre), il mio è stato scartato.
Non scrivevo da un paio d’anni, avrei dovuto continuare a non farlo.

2 Risposte to “Nostro Signore Il Vuoto Onnipotente”

  1. Massimiliano Says:

    Io penso che non ci si debba vergognare troppo di quello che si fa o non si fa. É sempre bello mettersi in gioco, dimostra coraggio. Ed il coraggio, per come la vedo io, é una virtù.

    • Non parlavo di coraggio. Alla fine ho pubblicato lo stesso un racconto che è stato scartato e che ai più non piace.
      Ironizzavo sul ritorno non proprio brillante

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